— Non è delizioso? — disse la signorina Connie con la sua voce stridula, sorridendo con quei denti da vecchia.
— Proprio delizioso — dissero Tennent e Betty, all’unisono.
Redpath distolse gli occhi da Alberi, si girò a guardare l’orologio, vide che le lancette sottili indicavano quasi le dieci e trenta. In un angolo remoto della sua mente ci fu un sussulto, la sensazione che il tempo passasse troppo in fretta. Prese il sandwich appena morsicato, scoprì che non ne aveva più voglia, si riaccomodò in poltrona. I suoi pensieri cominciarono a vagare. Per un motivo che gli sfuggiva, si trovò a riflettere sulla casa. La vide non come un’unità totale, ma come un insieme di diversi elementi architettonici. Quella stanza era sempre una stanza, ma adesso la vedeva anche come un volume di spazio più o meno cubico, artificialmente definito e delimitato. L’istinto gli diceva che un pavimento è una porzione di terreno solido, ma quel pavimento, per quanto sembrasse solido, era una specie di piattaforma o di ponte. Era un sandwich architettonico composto da uno strato esterno di assi, uno strato centrale di travi di legno, uno strato inferiore di calcina, e sotto… Sotto c’era la cantina della casa… Il regno delle tenebre che iniziava solo pochi centimetri sotto i suoi piedi… E c’era qualcosa…
Sussultò, sorpreso. Tennent si era girato verso di lui, gli puntava contro l’indice con una espressione di esuberanza assoluta.
— Sìììììììì… Bisogna arrivare fino in fondo alla strada — intonò Tennent. — Sìììì… Fino in fondo alla strada.
— È quello che ci vuole — disse Betty, e si mise a cantare.
Redpath gettò un’occhiata alla signorina Connie, che annuì incoraggiante; e improvvisamente si trovò a cantare, timido, esitante. I membri della famiglia cominciavano a divertirsi, come faceva tutta la gente normale di Calbridge, e se Albert non ne aveva voglia erano affari suoi.
Poco dopo Redpath guardò di nuovo l’orologio, e fu oscuramente sorpreso di scoprire che mancavano solo quindici minuti a mezzanotte. Provò ancora una volta quella sensazione strana dietro gli occhi.
“Lo so cosa sta succedendo ad Albert” pensò, aiutato dall’intuito e dalla telepatia. “Sta combattendo. Sta combattendo la mia battaglia. Sa che c’è poco tempo e cerca di aiutarmi… Ma cosa dobbiamo combattere?”
Redpath si alzò lentamente in piedi, rivolse un sorriso a Betty. — Il bagno è in cima alla prima rampa di scale, vero?
— Certo, tesoro. — Lei gli lanciò un’occhiata seria. — Non stare via troppo.
— No. — Uscì, si trovò nel pozzo di tenebre dell’atrio. Gli occorse un po’ di tempo per individuare l’interruttore.
Quando lo premette, una luce debole, marroncina come le ali d’una falena, si diffuse nell’ambiente. Vicino a lui c’era la porta della cucina, un rettangolo di oscurità senziente. Si girò, salì le scale, entrò in bagno, accese la luce, tentò di chiudere la porta. Il chiavistello era in condizioni talmente disastrose che dovette rinunciare all’idea.
Si avvicinò al lavandino, aprì il rubinetto dell’acqua fredda, infilò sotto la bocca. L’acqua scese con una violenza che non si aspettava, gli tolse il fiato, però continuò a bere. Nel giro di pochi secondi si sentiva già lo stomaco gonfio e indolenzito. Quasi soffocato, alzò la testa a prendere fiato, poi ricominciò a bere.
Poteva sentire la voce del dottor Hyalclass="underline" “Lo sapevi che ai giorni bui della medicina uno dei metodi più comuni per stabilire se un individuo era epilettico consisteva nel fargli bere qualche litro d’acqua?”.
Un improvviso conato di vomito costrinse Redpath a raddrizzarsi. Si aggrappò all’orlo del lavandino, cercando di calmare gli spasimi del diaframma. Ormai era perfettamente inutile continuare. Ingoiare un’altra sorsata d’acqua significava vomitare tutto quello che aveva nello stomaco. Adesso era ora di guardare la televisione.
“E stai attento se ti capita che il televisore si guasti” diceva il dottor Hyall, sorridendogli dolcemente dal tunnel del passato. “Se bisogna regolare i comandi, specialmente il comando di stabilità verticale, lascia che ci pensi qualcun altro. Mai inginocchiarti davanti a un apparecchio con le immagini che rotolano.”
Aprì la porta del bagno, uscì sul pianerottolo, si girò verso il davanti della casa. A destra aveva la parte più lunga di pianerottolo e le scale per il secondo piano; a sinistra le scale che scendevano a pianterreno. Stava per partire verso destra, quando sotto si spalancò la porta del soggiorno e Betty York apparve nell’atrio. Arrivarono subito anche Tennent e la signorina Connie. Si misero tutt’e tre a scrutarlo.
— Stai bene, tesoro? — chiese Betty.
— Non potrei stare… meglio — rispose Redpath, lottando per pronunciare quelle parole, per pensare e non pensare. — Jack Haley… Televisione.
Gesticolò verso l’alto, cominciò a salire le scale per il secondo piano. Dietro di sé udì rumore di passi. Accelerò, raggiunse il secondo pianerottolo, corse alla sua stanza nel buio più completo. Entrò, chiuse la porta, accese la luce. Solo allora si accorse che la porta aveva un piccolo chiavistello di ottone. Restò a fissarlo per qualche secondo, poi lo spinse in avanti, proprio mentre qualcuno abbassava la maniglia.
— Cosa stai facendo, John, vecchio mio? — chiese Tennent. — Aprimi.
— Non capisci — mormorò Redpath. — Jack Haley… Televisione. — Preso il televisore, lo portò sull’altro lato della stanza, si inginocchiò (lavanti alla presa.
— Dài, John, non sai cosa ti perdi. — La voce di Tennent era carezzevole. Cominciò a cantare: — Sììììì… Fino in fondo alla strada. — Le parole della canzone si persero in un rumore violento, un rumore che poteva essere prodotto solo da due o più paia di pugni che battessero contemporaneamente sulla porta. Sullo sfondo udì anche voci di donna.
Redpath scosse la testa, in preda al panico. — Il mio film preferito. Film così non se ne fanno più… — Cercò di infilare la spina nella presa di corrente, ma non entrava. Provò altre due volte prima di capire dov’era lo sbaglio: la spina era di tipo moderno, non si adattava a quella presa, vecchia di chissà quanti anni.
— Film così non se ne fanno più — ripeté assurdamente, fissando il televisore inutilizzabile.
Smisero di picchiare alla porta. Iniziò una serie di tonfi continui, regolari: Tennent stava cercando di abbattere la porta a spallate, e ad ogni colpo il legno cedeva, s’incurvava verso l’interno della stanza. I tre sul pianerottolo non sembravano più esseri umani; e fra loro c’era qualcuno che produceva un risucchio viscido, ripugnante.
Slughhh, slughhh, slughhh.
Disperato, Redpath strappò la spina del televisore, mettendo a nudo i fili. Li arrotolò alla svelta e li infilò nei due buchi della presa, senza fare nessuna attenzione. Ci fu uno scoppiettio, una fiammata rossastra. Redpath venne scagliato nelle tenebre, che lo divorarono avidamente.
12
La tristezza pervadeva l’entità enorme, composita, che era la nave. La tristezza dei preparativi di morte.
Quell’emozione non aveva nessun rapporto col fatto che un membro della Prima Razza stesse per scomparire: era solo un rinnegato che aveva minacciato le basi stesse della sua società, e in un continuum ordinato non poteva esistere un posto per lui. E neppure importava che un’ampia zona del pianeta, il settimo partendo dall’esterno del sistema, dovesse essere resa sterile. I suoi abitanti appartenevano alla specie di esseri diffusa in quasi tutto l’universo, i simulacri. Non possedevano la capacità di comunicare con la Stella-che-vive, quindi potevano essere considerati accumuli casuali di cellule, pseudo-esseri la cui esistenza o distruzione erano prive d’importanza per il grande schema.