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La tristezza che pervadeva l’entità composita della nave era dovuta al fatto che una parte della sua struttura doveva morire, doveva sacrificarsi per arrivare alla distruzione del nato-Una-Volta.

Grazie agli echi vitali residui, erano stati identificati i resti delle parti esterne della nave fuggiasca. La nave si trovava su un’isola vicina a una delle più grandi estensioni di terra. Una parte dell’involucro esterno della nave inseguitrice, vivo come tutto il resto, si era distaccata con sommo dolore dallo scafo, aveva assunto la forma adatta a penetrare ad alta velocità nell’atmosfera. Di conseguenza, una parte del corpo della nave si era già sottoposta volontariamente alla degenerazione dello stato virale. Esposta all’ossigeno, avrebbe eliminato in pochissimo tempo ogni forma di vita su una superficie molto ampia, per poi raggiungere la fase d’inattività.

Quella perdita era già insopportabile per la nave; ma la vera tragedia era che un frammento del nato-Tre-Volte, di un membro della Prima Razza, fosse costretto a separarsi dal corpo parentale per affrontare una morte sicura. Privo com’era di molti dei più primitivi poteri psionici del nato-Una-Volta, l’inseguitore non era in grado di sganciare o controllare la capsula per telecinesi. Gli era necessario sacrificare una parte del proprio essere per guidare la bomba vivente che avrebbe fatto giustizia. E la sensazione di tragedia era così forte perché quella morte sarebbe stata definitiva: in circostanze simili, non poteva verificarsi il ciclo di ingestione, purificazione e rinascita.

Però quel compito gli era stato assegnato molti anni prima, aveva accettato tutte le responsabilità che comportava, ed era impossibile tornare indietro.

Dolcemente, senza rimorsi, la capsula si staccò dal grande scafo della nave e iniziò la lunga discesa verso la Terra.

13

Redpath si risvegliò in un silenzio sia esterno sia interno, con la sensazione meravigliosa di essere ancora una creatura umana. Si sentiva normale, puro, privilegiato per il semplice fatto di essere vivo. Quella gioia così modesta durò solo una dozzina di battiti cardiaci; poi guardò l’orologio e vide che mancavano sei minuti a mezzanotte.

“Dove sono finiti? La porta ha resistito? Se ne sono andati, o aspettano sul pianerottolo che io esca?”

Si alzò, guardò la stanza, e in quel momento dentro di lui esplosero frammenti di memoria. I ricordi si unirono a formare un’immagine terribile. Aveva pochissimo tempo! Ormai Leila doveva trovarsi davanti alla casa di Gilpinston; la megamorte stava scendendo sul pianeta; e lui aveva un appuntamento con qualcosa che lo aspettava in cantina.

Si alzò traballando, fu costretto a lottare perché le gambe non cedessero. Colpi martellanti gli squassavano le tempie. Osservando i fili che giacevano accanto alla presa capì di essere stato fortunato. Avrebbe potuto fulminarsi, o scatenare un attacco di grande male che sarebbe durato ore. In quel momento non riusciva a capire se avesse subìto un attacco di dimensioni modeste, o se fosse semplicemente svenuto al passaggio della corrente elettrica. Gli effetti di cui risentiva erano ambigui; ma il risultato più vitale, più importante, era essere di nuovo se stesso, sottratto al controllo esterno, libero di pensare e di agire. E quei secondi preziosi passavano in fretta.

La borsa era ancora sulla sedia, dove l’aveva lasciata. Redpath l’aprì, tirò fuori una delle quattro bottiglie, provò a girare il tappo di metallo. La bottiglia era bagnata di benzina, le sue mani madide di sudore, la presa incerta. Il tappo rifiutò di svitarsi. Bestemmiando, Redpath lanciò un’occhiata alla porta: per fortuna era abbastanza robusta da resistere all’assalto di Wilbur Tennent. In quell’istante ci fu un colpo spaventoso. La parte superiore della porta venne sfondata da un oggetto metallico, la testa di un maglio.

Redpath, momentaneamente paralizzato, restò a fissare la porta. Il maglio scomparve. La mano di Tennent si infilò nello squarcio e cominciò a cercare il chiavistello.

Redpath agì d’impulso. Prese un fazzoletto dalla borsa, lo usò per afferrare meglio il tappo della bottiglia. Questa volta il tappo si svitò subito. Infilò il fazzoletto nel collo della bottiglia, poi strinse la molotov nell’incavo del braccio e tirò fuori un’altra bottiglia. Dovette lottare di nuovo col tappo. Era appena riuscito a toglierlo, quando il chiavistello della porta si aprì con uno scatto secco.

Tennent entrò nella stanza. Aveva in mano il maglio, e i suoi occhi erano quelli di un cadavere.

Con lui c’erano Betty York e la signorina Connie. Tutt’e due avevano in mano uno scalpello da muratore, del tipo che si usa per scavare le pareti: oggetti appuntiti, capaci di fracassare il cranio. Una parte del cervello di Redpath, come per sfuggire alla realtà, notò che gli attrezzi erano nuovi e pensò: «Ma che brava, signorina Connie. Pensi sempre a tutto”.

— State indietro — ordinò. La sua gola era secca. Chissà se quei tre burattini capivano ancora il linguaggio umano. — Non voglio farvi del male. Avete capito?

La signorina Connie lo fissò stralunata ed emise una serie di gorgoglii orrendi. Poi, anche se fra lei e Redpath c’era il letto, avanzò tranquillamente, salì sul materasso con una agilità innaturale.

Tennent e Betty girarono attorno al letto. Redpath indietreggiò, agitò la bottiglia aperta, lanciando benzina da per tutto. I tre, colpiti dal fluido volatile, si fermarono un attimo, poi ripresero ad avanzare. Tennent stringeva forte il maglio, era pronto a usarlo per commettere un omicidio; e le due donne muovevano nell’aria gli scalpelli, come serpenti.

— Fermatevi — mormorò Redpath. Poi lasciò cadere la bottiglia vuota e tolse di tasca l’accendino. Betty sibilò, si lanciò avanti. Redpath girò la rotella dell’accendino. La sua mano prese fuoco, fu avvolta da una fiamma giallastra, debole. Spinse lontano Betty, le incendiò i vestiti. Betty andò a sbattere contro Tennent. La signorina Connie si lanciò su di lui dal letto, come uno spaventapasseri animato. Redpath sentì un dolore improvviso alla spalla sinistra. La colpì con la mano in fiamme e la fece cadere; poi saltò sul letto. Con un solo balzo arrivò alla porta e si precipitò sul pianerottolo. Nella stanza, Tennent si era tolto la giacca, la stava usando per spegnere gli abiti di Betty. La signorina Connie si era già rimessa in piedi e stava stracciando il vestito nero.

La fiamma che avviluppava la mano di Redpath si spense con lo spostamento d’aria, lasciando un dolore acuto. Timoroso che la camera da letto potesse esplodere, Redpath corse giù per le scale, continuando a stringere l’altra molotov. Raggiunse il pianerottolo del primo piano, lo attraversò di corsa, si mise a scendere verso il salotto. A metà delle scale si fermò di colpo. La porta del soggiorno era aperta, rettangolo di luce nel buio della casa; e sulla soglia spuntava un paio di stivali logori.

“Albert mi sta aspettando! Potrei raggiungere lo stesso la porta d’ingresso, ma è piena di chiavistelli, e intanto che io cerco d’aprire lui avrebbe tutto il tempo di prendermi alle spalle. E con due mani come le sue non ha nemmeno bisogno del maglio o degli scalpelli…”

— Slughhh, slughhh — disse una voce sopra di lui, spaventosamente vicina. Una figura scheletrica coi capelli bianchi, vestita solo di una sottoveste grigia, cercò di afferrarlo dalla ringhiera del pianerottolo. Scostò quelle mani adunche con un colpo di braccia, sentì dei passi risuonare più in alto sulle scale, si lanciò con un salto fino a pianterreno. Rizzandosi subito in piedi, si precipitò verso la cucina.

“È quasi fatta, amico! Apri la porta della cantina, dài fuoco al fazzoletto, lancia la bottiglia sulle scale, poi esci dalla finestra della cucina. Al cinema l’hai visto fare centinaia di volte, e se ci riesce un tipo come Randolph Scott…”