— Leila — le sussurrò, toccandole il polso — devo parlarti.
Leila scostò il polso. — Ho da fare.
— Senti, mi spiace per quello che ho detto.
— Dal punto di vista del lavoro non fa nessuna differenza. Ho sempre da fare.
Lui la fissò, con un desiderio disperato. — Possiamo mangiare assieme?
Leila scosse la testa. — Nell’intervallo di pranzo devo tornare a casa a prendere certe carte.
— Be’… — Redpah si girò a scoccare un’occhiata di fuoco a Marge Rawlings, che aveva smesso di fotocopiare e manteneva un silenzio attentissimo. — Potrei venire con te.
— Solo se la tua bicicletta riesce a stare al passo con la mia macchina — rispose Leila, con crudeltà improvvisa.
— Leila. — Redpath abbassò ancora di più la voce. — Mi sta succedendo qualcosa.
— Non preoccuparti. È un fenomeno che si chiama pubertà.
— Vedo. — Redpath tentò inutilmente di trovare una risposta degna. — Se le cose stanno così…
Leila prese una penna e cominciò a tracciare punti su un foglio di carta millimetrata. Redpath aspettò un attimo prima di accettare l’invito a congedarsi, poi si tirò su e uscì dall’ufficio. Appena ebbe chiuso la porta, dentro scoppiò una cascata di risate. Si fermò in quell’oscurità verdastra, umiliato. Adesso Leila stava parlando di lui con una semplice collega di lavoro. Strinse le mani a pugno. Gli venne un’idea disperata: era molto facile mettere fine a quelle risate, a quei discorsi velenosi. Nella guerra dei sessi le donne avevano ottenuto la vittoria, ma proprio perché erano donne non avevano accettato il peso di qualcosa d’ingombrante come un codice d’onore. E se fosse stato “lui”, una volta tanto, a infrangere le regole della cavalleria? Le donne sanno di essere uguali agli uomini nei campi in cui per un filo non riescono a essere superiori; ma nessuna donna è brava a fare a pugni. Fare a pugni! Redpath abbassò gli occhi sull’arma complessa, pericolosa, che era attaccata all’estremità del suo braccio. Un ticchettio martellante gli risuonava in testa. Le risate di compatimento e le chiacchiere velenose si sarebbero interrotte subito, se lui avesse spalancato la porta dell’ufficio e avesse riempito Leila di pugni. Il primo pugno l’avrebbe fatta volare giù dalla poltrona, mandandola lunga distesa per terra; il secondo avrebbe distrutto quel sorriso arrogante al gin and tonic; il terzo avrebbe fatto nascere nei suoi occhi la paura, e paura significa rispetto…
L’ingresso principale dell’edificio si apri. Un fascio di luce penetrò fino nel corridoio sul retro dove era fermo Redpath, e lui si sentì osservato. Si avviò verso la porta, oltrepassò i due uomini che erano entrati, uscì nell’aria che sapeva di muffa.
Un jet volava alto nel sole. La sua scia bianca si allargava e si spezzettava in tante nuvolette ricurve. Redpath prese la bicicletta e la condusse a mano sulle pietre del sentiero. Quando raggiunse la strada asfaltata montò in sella, oltrepassò il cancello dell’istituto e girò verso il centro cittadino. A quell’ora il traffico era alquanto ridotto. Riuscì a viaggiare spedito, con la bicicletta che oscillava da una parte e dall’altra a ogni pedalata.
Era quasi arrivato al centro commerciale di Calbridge quando gli venne in mente che non aveva idea di dove stesse andando. Frenò di colpo, rischiando di essere travolto dal camioncino Ford sporco di fango che lo seguiva, e svoltò nel cortile sul davanti di un pub in stile Tudor. Un uomo corpulento stava aprendo il locale. Fece un breve cenno di saluto a Redpath, scrutò il cielo e tornò dentro, a cominciare il lavoro della giornata. Redpath scese dalla bicicletta, sedette sul muretto di mattoni che circondava il cortile e cercò di decidere cosa fare. Provava una sensazione stranamente simile a quella dell’unico giorno in cui aveva marinato la scuola: poteva andare dove più gli piaceva, ma gli sembrava che non ne valesse più la pena.
Il classico rifugio per un uomo nella sua situazione era la birreria, e l’interno in penombra del pub gli appariva invitante; ma lui non infrangeva mai la regola che dice che l’alcol non va d’accordo con l’epilessia. Già l’alcol di per sé poteva scatenare un attacco; l’ingestione di quantità notevoli di liquidi era un altro fattore potentissimo; e per finire c’era il rischio che le droghe anticonvulsive presenti nel suo corpo reagissero. Si era abituato a sopportare le restrizioni imposte dalla malattia. Si ripeteva sempre che se era ancora così magro e in buona forma era solo perché non poteva bere né guidare, ma quel mattino sarebbe stato bello, bellissimo, poter essere come tutti. Concluse che tutti, prima o poi, hanno bisogno di una valvola di sfogo, e si alzò in piedi. La sua valvola di sfogo sarebbe stata una giornata di aria fresca e solitudine al parco pubblico.
Dieci minuti dopo arrivò al Giardino Churchill di Calbridge, un rettangolo di verde di quaranta acri che esisteva solo perché durante la seconda guerra mondiale gli edifici che sorgevano nella zona erano stati abbondantemente bombardati. Le scuole non avevano ancora iniziato le vacanze estive, per cui il parco era tranquillo e quasi deserto. Redpath legò la catena della bicicletta a una ringhiera e si avviò verso il centro del parco, in cerca di un posto dove rilassarsi. Trovò una panchina davanti a un cespuglio di fiori disposti in ordine geometrico, e si sedette. D’improvviso si sentì stanco e deluso. Da quando si era alzato la vita lo aveva assalito in maniera alquanto dura, tanto da dargli l’impressione di essere un palo che due operai piantassero nel terreno a martellate; e adesso che era scesa la pace, la trovava estremamente irritante. Sembrava il preludio a disastri ancora maggiori.
“Pensa” si disse. “Fai progetti. Questo è il primo giorno della tua nuova vita.”
Però era difficile proiettare i pensieri nel futuro, quando il passato immediato e il presente erano così pieni di dolore e confusione. La domanda centrale era: cos’è andato storto? Tutto quello che gli era successo in mattinata sembrava derivare dall’apparizione di quell’orrore a casa sua, ma l’apparizione che origine aveva?
Due anni prima, disoccupato e senza la minima prospettiva di trovare un lavoro, si era offerto volontario per una serie di esperimenti sulla telepatia all’Istituto Jeavons. I suoi risultati con le carte Zener erano stati i migliori fra qualcosa come ottocento soggetti, e lui era stato felicissimo che Henry Nevison gli proponesse quello che sembrava il lavoro più facile di tutti i tempi. Gli avrebbero pagato un salario mensile solo per continuare gli esperimenti di telepatia qualche ora al giorno, cinque giorni la settimana. Un colpo di fortuna straordinario anche perché, per la prima volta in vita sua, un datore di lavoro non si lasciava impressionare dal fatto che lui soffrisse di epilessia.
Sua madre si era allarmata all’idea che i test prevedessero anche esperimenti con una nuova famiglia di droghe psicotropiche, di cui si volevano studiare gli effetti sulla telepatia, ma Redpath era riuscito a calmare le sue paure. Sua madre era una donna reticente per natura, che conduceva una vita da semireclusa per i sensi di colpa irrazionali scatenati dalla malattia del figlio; per lei era stato un sollievo enorme scoprire che Redpath poteva guadagnare soldi come un uomo “normale”. Lui era quasi certo che sua madre avesse raccontato agli amici che il figlio si dedicava alla ricerca medica, ma non aveva sollevato obiezioni. I suoi pensieri erano concentrati solo sul nuovo lavoro, sulla nuova missione della sua vita.
I primi tempi aveva continuato ad aspettarsi risultati sperimentali eccezionali; dopo qualche mese l’eccitazione era scomparsa, sostituita da un senso di noia. Venne stabilito senza ombra di dubbio che lui possedeva doti telepatiche latenti, ma in forma talmente ridotta che di solito i matematici dovevano fare calcoli complicati per operare una distinzione fra i suoi risultati e le probabilità statistiche. Poi era intervenuto il Composto Centoottantatré, portando cambiamenti graduali non solo nei risultati dei test, ma anche nella natura stessa delle sue esperienze soggettive. A volte, anziché dover cercare di visualizzare una carta aveva cominciato a “vederla”. Era una dote sporadica e per larga parte incontrollabile; però si era convinto che cominciassero a succedere cose significative e che a lui fosse stato riservato il privilegio (per usare una frase che Nevison ripeteva sempre) di estendere i limiti del sapere.