«Tu non sei mio figlio!» Una volta che gli ebbero riportato Bran di fronte, per quanto infuriato, suo padre non aveva potuto fare a meno di scoppiare a ridere. «Tu sei uno scoiattolo. E sia: fa’ lo scoiattolo. Vuoi scalare? E scala. Cerca almeno di non farti vedere da tua madre.»
Bran aveva fatto del suo meglio ma non pensava di essere riuscito ad abbindolarla sul serio. E lady Catelyn, visto che suo padre non l’avrebbe fermato, aveva stretto altre alleanze.
La vecchia Nan gli aveva raccontato la storia di un ragazzino molto cattivo colpito da un fulmine per essere salito troppo in alto. Dopo di che, i corvi erano scesi a beccargli gli occhi. Ma a Bran quella storiella non aveva fatto grande effetto. La cima della torre spezzata, dove lui era il solo in grado di arrivare, era piena di nidi di corvi e a volte si riempiva le tasche di chicchi di grano e i corvi venivano a mangiargli in mano. Nessuno di loro aveva mai manifestato la benché minima intenzione di voler beccare i suoi occhi.
Fallita la dialettica, si era passati alle vie di fatto. Per mostrargli che cosa gli sarebbe successo se fosse caduto, maestro Luwin aveva costruito un bambino di creta, gli aveva messo addosso i vestiti del Bran vero e aveva lanciato il pupazzo nel cortile dalla cima del muro nord. Era stato divertente vederlo andare in frantumi, ma anche quel tentativo aveva fatto fiasco. «Uhm, io però non sono fatto di creta» aveva dichiarato Bran guardando maestro Luwin. «E poi, io non cado.»
A quel punto era cominciata la caccia all’uomo, con le guardie della Prima Fortezza che gli correvano dietro ogniqualvolta lo vedevano sui tetti e cercavano di farlo scendere. Quello era stato lo spasso migliore di tutti: era come giocare a rimpiattino con i suoi fratelli, con la differenza che qui era Bran a vincere sempre. Quanto a scalare muri, nessuna delle guardie era brava nemmeno la metà di Bran, neanche Jory Cassel, e in ogni caso la maggior parte delle volte nemmeno lo vedevano, perché la gente non guarda mai in alto. Questa era un’altra delle cose che gli piacevano delle sue scalate: essere pressoché invisibile.
Ma anche le sensazioni gli piacevano. Issarsi pietra dopo pietra, le dita delle mani e dei piedi che cercano, frugano, trovano gli anfratti più nascosti, più reconditi. Saliva sempre a piedi nudi: era come avere quattro mani invece di due. Tornato a terra, assaporava l’indolenzimento acuto dei muscoli tesi fino allo spasimo. Amava il sapore dell’aria lassù, dolce e fredda come le pesche d’inverno. Gli piacevano gli uccelli, i corvi della torre spezzata, i piccoli usignoli che facevano il nido nelle crepe dei muri, il vecchio gufo che sonnecchiava nella soffitta polverosa al disopra dell’antica armeria. Bran li conosceva tutti.
Ma più di ogni altra cosa, a Bran piaceva raggiungere luoghi che nessun altro poteva raggiungere, vedere la grigia immensità della Prima Fortezza come nessun altro poteva vederla, o poteva averla mai vista. Questo trasformava l’intero castello nel suo giardino segreto.
Il suo posto preferito rimaneva però la torre spezzata. In un tempo ormai lontanissimo, era stata una torre di guardia, la più alta di Grande Inverno. Poi, molti secoli addietro, una folgore ne aveva colpito la cima, incendiandola, e tutto il terzo superiore della struttura era collassato su se stesso, crollando verso l’interno. La torre non era più stata ricostruita. Suo padre a volte mandava i cacciatori di ratti alla base del rudere, per eliminare le tane che si moltiplicavano tra i mucchi di pietre cadute dall’alto e le cataste di travi distrutte. A eccezione di Bran e dei corvi, però, nessuno osava neppure tentare di raggiungere la sommità.
Bran conosceva due strade per arrivarci. Si poteva scalare direttamente la parete esterna, ma le pietre erano instabili, la calce che le aveva tenute assieme ridotta in polvere da chissà quanto tempo, e a Bran non piaceva caricare tutto il proprio peso su quei vecchi sassi pericolanti.
Con l’altra strada, la migliore, si partiva dal parco degli dei e si raggiungeva la sommità dell’albero-sentinella. Di là bisognava attraversare l’armeria e il corpo di guardia, saltando di tetto in tetto a piedi nudi, evitando di farsi sentire dai soldati. A quel punto, si arrivava al lato cieco della Prima Fortezza, la parte più antica del castello, un tozzo maniero cilindrico che appariva più alto di quanto non fosse in realtà. Ormai lo abitavano solo topi e ragni, ma le sue vecchie pietre erano ottimi punti d’appoggio per continuare la scalata. Di là si poteva comodamente salire fino a dove i doccioni si affacciavano sul vuoto, quindi, una presa dopo l’altra, un doccione dopo l’altro, si conquistava il fronte nord della fortezza. Era il punto in cui le due strutture quasi si toccavano. Ad allungarsi, ma ad allungarsi veramente, non era difficile passare sulla parete della torre spezzata. L’ultimo tratto era un’ascesa in verticale sulle pietre annerite dal tempo.
Su e su e su fino alla vetta, dove i corvi sarebbero venuti a vedere se c’era grano da beccare.
Bran volteggiò sui doccioni. Orecchie, zanne, ciechi occhi di pietra non avevano segreti per lui, nulla avrebbe dovuto avere segreti, per lui.
Eccetto le voci. Ne fu così sorpreso che per poco non perse la presa. La Prima Fortezza era deserta, sempre deserta.
«Non mi piace» diceva una donna, e le sue parole provenivano dall’ultima finestra di una fila appena sotto di lui. «Dovresti essere tu Primo Cavaliere, non Stark.»
«Per gli dei: no» replicò un uomo con tono pigro, annoiato. «È un onore del quale faccio volentieri a meno. Fin troppo lavoro va di pari passo con quel cosiddetto onore.»
Bran rimase aggrappato ad ascoltare e di colpo, per la prima volta, ebbe paura di andare avanti: loro avrebbero potuto vedere i suoi piedi se avesse proseguito volteggiando verso il doccione seguente.
«Ma non ti rendi conto di quale pericolo corriamo?» riprese la donna. «Robert ama quell’uomo come un fratello.»
«I suoi fratelli, quelli veri, Robert li digerisce a stento. Non che io lo biasimi per questo: Stannis farebbe venire un’occlusione intestinale a un morto.»
«Evitami le battute di spirito. Stannis e Renly sono una cosa, Eddard Stark è tutto un altro discorso. A Stark Robert darà ascolto, che siano dannati tutti e due. Avrei dovuto insistere che nominasse te, ma ero certa che Stark avrebbe rifiutato.»
«Possiamo ancora considerarci fortunati» disse l’uomo. «La scelta del re avrebbe potuto ricadere su uno dei suoi fratelli, o addirittura su Ditocorto… Che gli dei ci assistano. Datemi mille nemici onorevoli piuttosto che un solo nemico ambizioso, e dormirò sonni più tranquilli.»
Suo padre. Era di lui che quelle persone stavano parlando. Bran voleva udire di più. Avvicinarsi, di poco, di pochissimo… Ma se avesse volteggiato davanti alla finestra fino al doccione, l’avrebbero di certo visto.
«Dobbiamo tenerlo d’occhio» disse la donna. «E molto attentamente.»
«Preferisco tenere d’occhio te.» L’uomo pareva ancora più annoiato, adesso. «Torna qui.»
«Lord Eddard non è mai stato realmente interessato a niente che accada a sud dell’Incollatura» insisté la donna. «Mai… fino a ora. Vuole mettersi contro di noi, starine certo. Per quale altra ragione avrebbe deciso di lasciare il suo trono qui nel Nord?»
«Per cento e una ragioni. A partire da quelle buffonate altisonanti chiamate dovere, onore e via blaterando. Forse Eddard Stark vuole il suo nome scolpito in grande nel libro della storia. Oppure vuole stare lontano dalla moglie, o forse vuole entrambe le cose. O magari, chissà, per una volta in vita sua vuole stare un po’ al caldo.»
«Sua moglie è sorella di Lysa Arryn. C’è quasi da meravigliarsi che Lysa non sia qui a darci il benvenuto con le sue accuse.»
Bran abbassò lo sguardo. C’era uno stretto cornicione, largo appena qualche centimetro, subito sotto la finestra. Si abbassò, protendendosi verso di esso. Era troppo lontano. Non ci sarebbe mai arrivato.