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Solo che adesso erano svaniti tutti quanti. Nessuna traccia dei corpi.

«Dei onnipotenti!» Qualcuno alle sue spalle. Una lama tagliò alcuni rami. Ser Waymar fu a sua volta sulla sommità della collina. Rimase immobile accanto all’albero-sentinella, la lunga spada in pugno, il manto d’ermellino che si gonfiava per un’improvvisa raffica di vento freddo. Era una sagoma nobile, quasi imponente, stagliata contro la luce delle stelle. Una sagoma ben visibile, mortalmente esposta.

«A terra!» La voce di Will era un sibilo. «Qualcosa non va!»

«Guarda laggiù Will.» Royce non si mosse, limitandosi a osservare la radura deserta e lasciandosi sfuggire una risata. «I tuoi morti hanno deciso di spostare l’accampamento da qualche altra parte.»

Will sentì la voce che gli si strozzava in gola. Andò alla ricerca di parole che forse nemmeno esistevano. Non era possibile. I suoi occhi tornarono sull’accampamento abbandonato, avanti e indietro. Si fermarono sull’ascia. La colossale bipenne da combattimento giaceva ancora dove lui l’aveva vista, immota. Un’arma così poderosa…

«In piedi Will» ordinò ser Waymar. «Non c’è nessuno, qui. E non voglio che tu ti nasconda dietro un cespuglio.»

Will obbedì con riluttanza.

Ser Waymar lo guardò dritto in faccia, senza nascondere la propria aperta disapprovazione. «Non ho alcuna intenzione di fare ritorno al Castello Nero portando con me un fallimento alla mia prima uscita di pattuglia. Noi troveremo questi uomini.» Gettò uno sguardo attorno. «Sull’albero. Forza, Will, sali. Cerca di individuare un altro fuoco.»

Will tornò a girarsi, senza parlare. Discutere non avrebbe avuto alcun senso. Il vento soffiava più forte, quasi a volerlo tagliare in due. Raggiunse l’albero-sentinella e cominciò ad arrampicarsi tra i rami di legno grigiastro. In breve, le sue mani furono viscide di resina. Venne inghiottito dal labirinto di snodi contorti, di aghi vegetali. La paura tornò a riempirgli le viscere come un pasto pesante da digerire. Sussurrò una preghiera agli dei senza nome dei boschi. Estrasse il coltello dal fodero e serrò la lama tra i denti per avere entrambe le mani libere e continuare la scalata. In qualche modo, il sapore del metallo gelido riuscì a dargli conforto.

Sotto di lui, la voce del giovane esclamò: «Chi va là?». Una voce improvvisamente piena d’incertezza nel dare l’intimazione. Will interruppe la faticosa salita. Rimase immobile ad ascoltare, a osservare.

Fu la foresta a rispondere a ser Waymar: il fruscio del fogliame, il gorgogliare dell’acqua gelida del torrente, il richiamo lontano di un gufo.

Gli Estranei non emettevano alcun suono.

Will percepì un movimento con la coda dell’occhio. Pallide ombre nel bosco. Girò il volto e colse una sagoma bianca nelle tenebre. Svanì in un soffio.

I rami dell’albero-sentinella si agitarono nel vento, strisciando gli uni contro gli altri come dita scheletriche. Will aprì la bocca per lanciare un avvertimento, ma la voce gli si congelò in gola. Forse si era sbagliato. Forse era stato solamente un uccello notturno, un riflesso sulla neve, uno scherzo del chiaro di luna. In fondo, che cosa esattamente credeva di aver visto?

«Will, dove sei?» chiamò ser Waymar rivolto verso l’alto. «Riesci a vedere niente?»

Royce ruotava lentamente su se stesso, di colpo guardingo, la spada in pugno. Anche lui doveva averli sentiti, nello stesso modo in cui li aveva sentiti Will. Sentire, certo. Ma niente da vedere. «Will! Rispondi! Perché fa così freddo?»

Faceva freddo. Un freddo improvviso, innaturale. Tremando, Will si aggrappò con maggior forza alla biforcazione, la faccia premuta contro il tronco dell’albero-sentinella, il sentore dolciastro, appiccicoso della resina sulla guancia.

Dalle tenebre della foresta emerse un’ombra che andò a fermarsi di fronte a ser Waymar. Una sagoma alta, scavata, dura come vecchie ossa, la pelle livida che pareva d’alabastro. Ogni volta che si muoveva, la sua armatura sembrava cambiare colore: un momento appariva candida come neve appena caduta, il momento dopo era nera come una caverna. Il tutto andava a mescolarsi, a compenetrarsi con lo sfondo grigio-verde degli alberi in un sinistro caleidoscopio che mutava a ogni passo, simile ai raggi della luna su acque agitate.

Will udì ser Royce esalare un lungo sibilo.

«Non avvicinarti oltre» intimò il giovane, la voce incrinata come quella di un ragazzino spaventato.

Si gettò dietro le spalle le falde della cappa d’ermellino liberando le braccia e preparandosi al duello, entrambe le mani strette attorno all’impugnatura della spada. Il vento aveva cessato di soffiare. L’aria era di ghiaccio.

L’Estraneo continuò ad avanzare senza rumore. Nella destra aveva una spada lunga, diversa da qualsiasi altra Will avesse mai visto. Nessun metallo noto all’uomo era stato usato per forgiare quella lama. No, nessun metallo, infatti: la lama era di cristallo. Pareva un’entità vivente, talmente sottile da svanire quando la si guardava di taglio. Emanava una luminescenza azzurra, un alone spettrale che si faceva indistinto ai bordi. E Will sapeva che quei bordi erano più affilati di quelli di qualsiasi rasoio.

«Vuoi danzare?» Ser Royce affrontò l’avversario con coraggio. «Allora danza con me.»

Sollevò la spada alta sopra la testa, pronto al duello. Le sue mani tremavano, forse per il peso dell’arma o forse per il freddo. Eppure, in quell’istante, Will non ebbe dubbi: ser Royce aveva cessato di essere un ragazzo ed era diventato un uomo, un vero guerriero dei Guardiani della notte.

L’Estraneo si fermò. Will vide i suoi occhi. Erano azzurri, di un azzurro molto più profondo e intenso di qualsiasi occhio umano, un azzurro in grado di ustionare come il morso del ghiaccio. Quegli occhi si soffermarono sulla lama della spada levata, sui freddi riflessi che la luce della luna traeva dall’acciaio. Per un breve istante, Will osò dare spazio alla speranza.

Nuove ombre emersero dalle ombre. Prima due… poi tre… poi quattro… cinque… Ser Waymar doveva aver percepito il freddo che arrivò assieme a esse, ma non le vide, non le udì. Will avrebbe dovuto gridare l’allarme, avvertire il suo signore. Era quello il suo dovere, anche a costo della vita. Tremò, si afferrò al tronco dell’albero-sentinella. E rimase in silenzio.

La pallida spada di cristallo si mosse, fendendo l’aria della notte.

Ser Waymar la intercettò con la sua spada d’acciaio. Non ci fu alcun impatto di metalli quando le lame cozzarono, solo una vibrazione acutissima, simile al lamento d’agonia di chissà quale animale, appena percettibile da orecchio umano. Ser Waymar bloccò un secondo fendente, un terzo, poi arretrò di un passo. Un altro vortice di colpi lo costrinse ad arretrare ancora di più.

Alla sua destra, alla sua sinistra, dietro di lui, tutt’attorno a lui, le ombre continuavano a osservare. Ombre pazienti e silenziose, senza volto, quasi senza forma definibile nelle loro armature mimetiche, caleidoscopiche contro le più profonde ombre della foresta. Continuarono a osservare. Nessuna di esse dava il benché minimo cenno di voler interferire.

Le spade tornarono a incrociarsi, a cozzare l’una contro l’altra, un fendente dopo l’altro, un affondo dopo l’altro, una parata dopo l’altra, fino a quando Will non fu costretto a coprirsi le orecchie. Quel sibilo angosciante generato dall’urto delle lame: non voleva più sentire, non voleva più udire.

Il respiro di ser Waymar si fece pesante per la fatica. Il suo fiato condensava in ritmiche nuvole biancastre nel chiaro di luna. La sua lama era coperta di ghiaccio. Quella dell’Estraneo continuava a scintillare di luminescenza azzurra.

E alla fine ser Waymar fu lento, troppo lento. La pallida lama di cristallo arrivò a mordere la cotta di maglia di ferro sotto il suo braccio. Il giovane urlò di dolore. Sangue gocciolò sugli snodi della maglia metallica, sangue che fumava nell’aria glaciale e sembrò rosso fuoco liquido quando cadde nella neve. Ser Waymar tastò il punto in cui era stato colpito. Quando ritirò la mano, le dita del suo guanto di camoscio erano fradice.