L’Estraneo disse qualcosa in un linguaggio sconosciuto a Will, la voce che pareva lo spezzarsi della crosta di un lago congelato mentre pronunciava parole di ignota derisione.
Ser Waymar ritrovò il proprio furore. «Per re Robert!» gridò.
Andò all’attacco con un urlo rabbioso, la lunga spada incrostata di ghiaccio impugnata a due mani, un attacco trasversale carico di tutta la sua forza. La parata dell’Estraneo fu un movimento pigro, quasi annoiato.
All’impatto, l’acciaio della lama di ser Waymar andò in mille pezzi.
Una specie di urlo riverberò per la foresta. La miriade di frammenti metallici che erano stati una lama splendidamente forgiata volò a disperdersi chissà dove, come una manciata di inutili schegge. Royce cadde in ginocchio gridando, gli occhi coperti dalle mani. Altro sangue gli ruscellava tra le dita.
Le ombre avanzarono tutte assieme, come rispondendo a qualche segnale, e si chiusero su di lui. In un silenzio da incubo, le loro spade si sollevarono. Poi calarono e calarono e calarono. Nient’altro che un freddo mattatoio. Le pallide lame di cristallo fecero a brandelli la maglia di ferro come se fosse stata seta. Di nuovo, Will chiuse gli occhi. Sotto di sé continuò a udire parole incomprensibili e risate taglienti, acuminate come stalattiti.
Più tardi, molto più tardi, trovò la forza di guardare. La cima dell’altura era vuota.
Rimase nascosto sull’albero, terrorizzato al punto che non osava respirare, mentre la luna percorreva il proprio cammino attraverso il cielo nero. Alla fine, con i muscoli intorpiditi e le dita intirizzite dal freddo, si decise a scendere.
Royce giaceva nella neve, faccia in sotto, un braccio disteso di lato. La spessa pelliccia di ermellino era squarciata in una dozzina di punti. Povero corpo non di un uomo ma di un ragazzo: adesso si vedeva bene. A qualche passo di distanza c’era quanto restava della sua spada, la punta ridotta a un moncone frastagliato, simile a un albero colpito in pieno dalla folgore. Will s’inginocchiò, gettò attorno a sé un’occhiata guardinga, quindi afferrò la spada. Così spezzata, sarebbe stata la prova necessaria. Gared avrebbe capito. E se non avesse capito lui, lord Mormont, il Vecchio orso, o maestro Aemon, di certo non avrebbero avuto dubbi. Gared… Era ancora là, assieme ai cavalli? Doveva andarsene di lì. Subito.
Will si raddrizzò.
Ser Royce si alzò in piedi, sovrastandolo. I suoi abiti eleganti erano ridotti a stracci insanguinati, il volto era devastato. Nell’occhio sinistro era conficcata una scheggia della sua spada distrutta.
L’occhio destro era spalancato. La pupilla era accesa da una fiamma di luce azzurra. In grado di vedere.
Le dita di colpo inerti di Will lasciarono cadere la spada spezzata. Chiuse gli occhi e cominciò a pregare. Mani lunghe, affusolate, eleganti, salirono ad accarezzargli il viso, poi si strinsero attorno alla sua gola. Erano coperte del più soffice camoscio e appiccicose di sangue, ma al tocco erano gelide come ghiaccio.
BRAN
Era stata un’alba chiara e fredda, la limpidezza dell’aria quasi un annuncio che l’estate stava finendo.
Si mossero al sorgere del sole, venti uomini in tutto, per andare a una decapitazione. Bran era tra loro, pieno di nervosismo per l’eccitazione dell’evento. Era il nono anno dell’estate, il settimo della sua vita, ed era la prima volta che veniva ritenuto abbastanza grande da cavalcare con il lord suo padre e con i suoi fratelli, abbastanza forte da vedere il volto della giustizia del re.
Il condannato era stato portato in un piccolo forte tra le colline. Robb riteneva si trattasse di un bruto, uno dei molti che avevano giurato fedeltà con la propria spada a Mance Rayder, il Re-oltre-la-Barriera. Al solo pensiero, Bran sentiva accapponarsi la pelle. Ricordava bene le inquietanti storie della vecchia Nan. I bruti erano uomini malvagi, raccontava. Stringevano patti con i giganti e con i mangiatori di cadaveri. Venivano a rapire le bambine nel cuore della notte e bevevano sangue umano da corna svuotate di animale. E durante la Lunga Notte, le loro donne giacevano con gli Estranei, generando creature spaventose, solo parzialmente umane.
Ma l’uomo che trovarono al forte, legato mani e piedi all’esterno del bastione in attesa della giustizia del re, era un vecchio tutto pelle e ossa, non più alto di Robb. Aveva perduto entrambe le orecchie e un dito a causa del gelo. Vestiva di nero, come un confratello dei Guardiani della notte, ma la sua pelliccia era stracciata e lurida.
Nella fredda aria del martino, il fiato degli uomini andò a condensare assieme a quello dei cavalli in nubi frastagliate. Il lord suo padre diede ordine di tagliare le corde e di trascinare il condannato di fronte a loro. Robb e Jon si tenevano eretti sulle selle. Bran, sul suo piccolo pony, era in mezzo a loro e si sforzava di apparire più adulto dei suoi sette anni, di fingere di aver già visto tutto quello che c’era da vedere. Un debole vento soffiava attraverso il portone del fortino. Su tutti loro sventolava il vessillo degli Stark di Grande Inverno: un meta-lupo grigio lanciato in corsa attraverso una bianca pianura di ghiaccio.
Il padre di Bran restò solennemente in sella al proprio cavallo, i lunghi capelli castani che ondeggiavano nel vento. I fili argentei nella fitta barba tagliata corta lo facevano apparire più vecchio dei suoi trentacinque anni. Quel giorno, i suoi occhi grigi erano velati di una sfumatura di cupa durezza. Era una persona molto diversa dall’uomo che amava passare le sere accanto al fuoco, parlando con calma dell’Età degli eroi e dei Figli della foresta. Quel giorno, il suo non era il volto del padre, intuì Bran, ma quello di lord Eddard Stark di Grande Inverno.
Vennero poste domande e vennero date risposte, in quel freddo mattino, ma in seguito Bran non riuscì a ricordare molto di quanto era stato detto. Alla fine, suo padre diede un ordine. Due armati della sua guardia trascinarono il vecchio dagli abiti stracciati fino a un ceppo al centro della piazza e lo costrinsero ad abbassare il capo contro il duro legno nero.
Lord Eddard Stark smontò da cavallo. Theon Greyjoy, il suo protetto, gli porse la spada. La lama era larga quanto la mano di un uomo e perfino più alta di Robb. “Ghiaccio” si chiamava quella spada d’acciaio di Valyria, forgiata con gli incantesimi, scura come il fumo. Nulla manteneva il filo come l’acciaio di Valyria.
Lord Eddard si sfilò i guanti e li porse a Jory Cassel, il comandante della sua Guardia personale. Poi impugnò Ghiaccio con entrambe le mani.
«In nome di Robert della Casa Baratheon» formulò «primo del suo nome, re degli Andali e dei Rhoyar e dei Primi Uomini, lord dei Sette Regni e protettore del reame, io, Eddard della Casa Stark, lord di Grande Inverno e protettore del Nord, ti condanno a morte.» Sollevò la spada alta contro il cielo.
Jon Snow, fratello bastardo di Bran, gli si accostò. «Tieni le redini ben strette» sussurrò «e non distogliere lo sguardo. Se lo farai, nostro padre lo saprà.»
Bran serrò le briglie con forza e non distolse lo sguardo.
Suo padre sferrò un unico colpo, preciso, definitivo. Sangue zampillò sulla neve, rosso come il vino dell’estate. Un cavallo arretrò bruscamente e il suo cavaliere tirò il morso per impedire che imbizzarrisse. Bran rimase a fissare il sangue come ipnotizzato. Il manto nevoso tutt’attorno al ceppo lo bevve in fretta, diventando sempre più purpureo.
La testa del condannato, staccata di netto dal corpo, rimbalzò alla base del ceppo e rotolò fino ai piedi di Theon Greyjoy. Theon aveva diciannove anni, era asciutto e scuro di carnagione. Erano ben poche le cose che non trovava divertenti. Scoppiò in una risata, appoggiò un piede contro la testa mozzata e le diede una spinta, mandandola a rotolare lontano.