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«Va bene, septa, le dirò del vestito.» La voce di Sansa era di colpo venata d’incertezza. «Ma temo che si vestirà come sempre.» Si augurò che non mettesse tutte loro in imbarazzo. «Posso andare?»

«Sì.» Septa Mordane passò alla fetta successiva di pane e miele e Sansa scivolò giù dalla panca. Lady la seguì da vicino mentre usciva a gran velocità dalla sala comune della locanda.

Fuori c’era l’inevitabile, rumoroso caos di ogni mattina.

Per un lungo momento, Sansa rimase immobile in mezzo alle grida, alle imprecazioni e al cigolare delle ruote di legno, mentre gli uomini smontavano tende grandi e piccole e caricavano i carri per la nuova giornata di viaggio.

La locanda nella quale avevano fatto sosta, la più grande che Sansa avesse mai visto, era una monumentale struttura a tre piani di pietra pallida. Ma a dispetto della sua mole, era riuscita ad accomodare solamente un terzo della carovana reale. Con l’aggiunta del gruppo di Grande Inverno e degli altri cavalleggeri che si erano uniti lungo la strada, il convoglio era cresciuto a oltre quattrocento unità.

A Sansa ci volle un po’ per trovare la sorella. Era seduta sulla riva del Tridente e cercava di tenere ferma Nymeria mentre le toglieva dal pelo grumi di fango disseccato. La meta-lupa non appariva particolarmente contenta di subire quell’operazione. Quanto ad Arya, indossava gli stessi indumenti di cuoio con i quali era andata a cavallo il giorno precedente, e quello prima ancora.

«È meglio che tu vada a metterti qualcosa di carino» esordì Sansa. «Così dice septa Mordane. Oggi viaggeremo assieme alla principessa Myrcella, nella casa su ruote della regina.»

«Non io.» Arya dovette tirare con forza per staccare un grumo di fango più ostinato degli altri dall’arruffata pelliccia grigia di Nymeria. «Io oggi andrò con Mycah fino alla diga a monte, alla ricerca dei rubini.»

«Rubini…» Sansa non aveva la minima idea di che cosa sua sorella stesse parlando. «Quali rubini?»

«Ma quelli di Rhaegar, no?» Arya le scoccò l’occhiata che si riserva ai completi imbecilli. «È qui che è stata combattuta la grande battaglia del Tridente. È qui che Robert Baratheon ha ucciso Rhaegar Targaryen e ha conquistato la corona.»

«Cosa? Tu oggi non puoi andare alla ricerca proprio di nessun rubino.» Sansa fissò trasecolata la sua magrissima sorella. «La principessa Myrcella ci aspetta. La regina Cersei ci ha invitate tutt’e due!»

«Non m’importa. La casa su ruote non ha nemmeno una finestra. Da là dentro non si vede niente!»

«Ma che cosa ti aspetti di vedere?» Sansa cominciava a irritarsi. Quell’invito era molto importante per lei e adesso, proprio come aveva temuto e come sempre succedeva, quella sciocca di sua sorella stava per rovinare tutto. «Ci sono soltanto campi e fattorie e fortini.»

«Ti sbagli» la contraddisse Arya «e di grosso. Se ogni tanto venissi anche tu fuori a cavallo con noi, te ne accorgeresti.»

«Io odio andare a cavallo» protestò Sansa. «La sola cosa che ottieni dopo aver finito è essere sporca, coperta di polvere e con dolori da tutte le parti.»

Arya si strinse nelle spalle.

«E sta’ ferma!» esclamò rivolta a Nymeria. «Non ti sto facendo male.» Poi tornò a rivolgersi a Sansa. «Mentre stavamo superando l’Incollatura, ho contato trentasei diversi tipi di fiori che nemmeno sapevo esistessero. E Mycah mi ha mostrato una lucertola-leone.»

Sansa represse un brivido. C’erano voluti dodici giorni per superare l’Incollatura, il restringimento nel continente che formava una specie di divisione naturale tra il Sud e il Nord dei Sette Regni. Il convoglio reale era stato costretto ad avanzare su un percorso contorto che si snodava tra nere paludi infette che parevano non avere né inizio né fine. Sansa aveva odiato ogni istante di quella traversata. L’atmosfera era opaca, graveolente, la pista talmente stretta che di notte non erano stati neppure in grado di allestire un accampamento decente, finendo con il fermarsi lungo la strada del Re. Erano premuti tutt’attorno da fitti boschetti di alberi dalle radici sommerse dai cui rami pendevano frastagliati tendaggi di muschi e licheni. Fiori enormi emergevano dal fango e fluttuavano sulla superficie delle acque stagnanti. Chi fosse stato così stupido da tentare di lasciare il sentiero per coglierli, sarebbe stato risucchiato dalle sabbie mobili, stritolato dai serpenti raggomitolati sui rami bassi, attaccato dalle letali lucertole-Leone in agguato appena sotto la superficie dell’acqua, simili a neri tronchi dotati di occhi e di zanne.

Naturalmente, nulla di tutto questo aveva fermato Arya. Un giorno era rientrata sorridendo a tutta dentatura, come un cavallo, con i capelli e i vestiti ridotti a un pastone di fango. Tra le braccia stringeva un caotico mazzo di fiori verdi e purpurei che aveva strappato di persona dalla palude per farne dono al loro padre. Sansa aveva sperato che almeno lui le dicesse di comportarsi come la lady di nobile famiglia che si supponeva lei fosse, ma lui non l’aveva fatto, anzi: l’aveva addirittura abbracciata e ringraziata per i fiori. E questo aveva fatto sentire Sansa anche peggio.

Poi era stata la volta di quei fiori rossastri chiamati “baci velenosi”, dai quali Arya aveva ricavato una pruriginosa irritazione alle braccia. Sansa era convinta che quello le sarebbe servito di lezione, ma niente da fare. Sua sorella si era fatta una sonora risata, e il giorno seguente si era spalmata fango — fango, proprio così! — sugli arrossamenti della pelle, esattamente come avrebbe fatto una qualsiasi ignorante paesana delle paludi, e questo solo perché quel suo amichetto, Mycah, le aveva detto che il fango avrebbe fermato il prurito.

Ultimamente Arya aveva dei lividi sulle braccia e sulle spalle, strane chiazze, alcune rossastre, altre tendenti al giallastro. Sansa le aveva notate quando aveva visto sua sorella spogliarsi per andare a dormire. Come Arya si fosse procurata quelle chiazze, i sette dei erano i soli a saperlo.

«E la settimana scorsa abbiamo trovato la torre di guardia stregata.» Arya continuava a ripulire il pelo di Nymeria e a parlare, tutta entusiasta delle cose che aveva scoperto durante il viaggio verso il Sud. «E il giorno prima abbiamo inseguito un branco di cavalli selvaggi. Avresti dovuto vedere come se la sono data a gambe nel momento in cui hanno sentito l’odore di Nymeria.»

Forse perché aveva udito il proprio nome, la meta-lupa si agitò di nuovo. «Ti ho detto di stare ferma!» le comandò Arya. «Devo pulirti dall’altro lato, sei ancora tutta sporca di fango.»

«Arya, non dovresti allontanarti dalla colonna» le ricordò Sansa. «Non te l’ha forse detto nostro padre?»

«Non mi sono allontanata così tanto.» Arya scrollò le spalle. «E poi, con me c’è sempre stata Nymeria. Non è che vado via tutti i giorni. Certe volte è bello anche solo cavalcare a fianco dei carri e parlare con la gente.»

Sansa sapeva tutto quello che c’era da sapere sul genere di gente con la quale ad Arya piaceva parlare: signorotti di basso rango, stallieri, servette, uomini anziani, bambini mezzi nudi, mercenari di dubbia nascita. Arya era capace di fare amicizia con chiunque.

E poi quel Mycah. Lui era il peggiore di tutti: un selvaggio garzone di macellaio di tredici anni che dormiva nel carro della carne e si portava sempre addosso il puzzo del tagliere da macellazione. Solo a guardarlo, a Sansa si rovesciava lo stomaco, mentre Arya sembrava preferire la sua compagnia a quella di chiunque altro, inclusa la sorella maggiore.