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«Devi venire con me.» Adesso Sansa cominciava a perdere la pazienza. «Non puoi respingere l’invito della regina. Septa Mordane ti sta aspettando» disse con fermezza.

Arya fece finta di non sentire e diede una strappata dura con il pettine. Nymeria, irritata, ebbe un sussulto e sfuggì alla sua presa. «Nymeria! Torna subito qui!»

«Ci saranno torta al limone e tè» continuò Sansa, con fare da adulta, tutta compresa delle responsabilità del protocollo. Lady le si strofinò contro la gamba e Sansa la grattò dietro le orecchie, proprio come le piaceva. Lady sedette sulle zampe posteriori e guardò Arya che correva dietro a Nymeria. «E poi, mi spieghi per quale ragione vuoi andartene in giro su un vecchio cavallo puzzolente quando potresti startene comodamente sdraiata su cuscini di piume, a mangiare torta al limone assieme alla regina Cersei?»

«La ragione» le rispose Arya con noncuranza «è che a me la regina non piace.»

A Sansa mancò il respiro. Arya, sua sorella, osava dire una cosa simile.

Ma quella continuò imperterrita: «Non mi permette nemmeno di portare Nymeria». S’infilò il pettine nella cintola e si avvicinò cautamente alla sua meta-lupa, che la guatava con diffidenza.

«La casa su ruote di corte non è posto adatto a un lupo» dichiarò Sansa. «E poi lo sai benissimo che la principessa Myrcella ne ha paura.»

«La principessa Myrcella non è che una bamboletta molle…» Arya andò all’assalto e riuscì ad agguantare Nymeria attorno al collo, ma nel momento in cui sfoderò di nuovo il pettine, Nymeria riuscì a divincolarsi dalla sua stretta e se la diede a gambe. «Lupo cattivo!» gridò Arya, frustrata, e le tirò dietro il pettine. «Cattivo!…»

Sansa non poté reprimere un sorriso. Il mastro del canile di Grande Inverno una volta le aveva detto che i cani tendono ad assomigliare ai loro padroni. Abbracciò con dolcezza Lady, che le leccò la guancia. Sansa ridacchiò, ma non fu un’idea brillante: Arya la udì e si girò di scatto verso di lei, fulminandola con lo sguardo.

«Non m’importa niente di quello che dici. Tu va’ pure dalla regina Cersei.» C’era un’espressione inflessibile sulla faccia allungata, ossuta di Arya. «Io vado a cavalcare.»

«Per gli dei, Arya, certe volte ti comporti come una bambinetta capricciosa. E va bene: ci andrò da sola. Molto meglio così. Lady e io ci mangeremo tutta quella buona torta al limone e ci divertiremo un sacco senza di te!»

Si voltò per andarsene.

«Non penso proprio» le gridò dietro Arya. «Lady non ti permetteranno di portarla.»

Sansa non fece in tempo a mettere assieme una risposta che Arya era già partita di corsa lungo la sponda del Tridente, all’inseguimento di Nymeria.

Sola, umiliata, Sansa si incamminò per la lunga strada del ritorno. Sapeva che ad aspettarla alla locanda c’era septa Mordane. Lady le trotterellava al fianco. Sansa era sulla soglia del pianto. In fondo, tutto ciò che voleva era che le cose fossero belle e delicate, come dicevano le rime delle ballate. Perché Arya non poteva essere dolce e carina come la principessa Myrcella? Quanto le sarebbe piaciuto avere una sorella come lei.

Non sarebbe mai riuscita a capire come fosse possibile che due sorelle, nate solamente a due anni di distanza, potessero essere così diverse una dall’altra. Sarebbe stato tutto più semplice se anche Arya fosse stata bastarda, come il loro fratellastro Jon Snow. Assomigliava addirittura a lui, con la faccia allungata e i capelli castani degli Stark, proprio l’opposto della lady loro madre. Inoltre, la madre di Jon era stata una popolana, o almeno questo si sussurrava. Una volta, quando era ancora molto piccola, aveva chiesto a sua madre se non ci fosse stato qualche sbaglio, se gli elfi maligni non avessero portato via la sua vera sorella. Ma lady Catelyn, ridendo, aveva assicurato che no, non c’era stato nessuno sbaglio: Arya era sua figlia, la vera sorella di Sansa, sangue del loro sangue. Sansa rifiutava di credere che la mamma le avrebbe mentito su una cosa simile, per cui doveva essere la verità.

Via via che Sansa si avvicinava al centro dell’accampamento, quei dispiaceri furono rapidamente dimenticati.

Un folto gruppo di gente si era raccolto attorno alla casa su ruote della regina. Sansa udì tante voci eccitate, come il ronzio di un grande alveare. I portelli della casa erano spalancati, la regina in persona era in piedi in cima ai gradini di legno e sorrideva a qualcuno ai piedi della scala.

«Miei bravi cavalieri» la udì dire Sansa «il Concilio mi rende un grande onore.»

Sansa prese da parte un signorotto che conosceva. «Che succede?» gli chiese.

«Il Concilio ristretto della corona ci ha mandato incontro alcuni cavalieri da Approdo del Re» le rispose lui. «Una guardia d’onore per re Robert.»

Ansiosa di vedere, Sansa lasciò che Lady le aprisse un varco tra la folla. Perché quando appariva un meta-lupo, tutti si facevano prontamente da parte. C’erano due cavalieri genuflessi al cospetto della regina, con armature così raffinate e splendide che Sansa ammiccò ai loro riflessi.

Uno di essi indossava una cotta di maglia smaltata di bianco, brillante come un campo innevato di fresco, con guarnizioni d’argento che si accendevano alla luce del sole. Quando si tolse l’elmo, Sansa vide che si trattava di un uomo anziano, con i capelli bianchi come la sua armatura, tuttavia ancora forte e asciutto. Sulle spalle portava l’ampio mantello candido della Guardia reale.

Il suo compagno era un giovane sulla ventina, con armatura d’acciaio color verde foresta. Era l’uomo più bello che Sansa avesse mai visto: alto, atletico, vigoroso; lunghi capelli neri come la notte gli ricadevano fin sulle spalle incorniciando un volto perfettamente rasato, nel quale scintillavano due occhi verdi come il metallo che lo proteggeva. Sotto il braccio reggeva un elmo munito di corna di cervo, in una splendida fusione ornata d’oro.

Sulle prime, Sansa non notò il terzo uomo. Non era genuflesso come gli altri, ma stava in piedi, in disparte, accanto ai cavalli. Un uomo magro, austero, che si limitava a osservare. Il suo volto senza barba era butterato, con occhi infossati e guance scavate. Non era vecchio, ma gli rimanevano solamente pochi ciuffi di capelli dietro le orecchie, che aveva lasciato crescere lunghi come quelli di una donna. Come armatura indossava una cotta di maglia sopra strati di duro cuoio, senza il miniino ornamento. Il tutto segnalava molti anni di scontri. Da dietro la sua spalla destra sporgeva il fodero di una spada, di pelle sbiadita, usurata. Una grande spada da impugnarsi a due mani, con la lama troppo lunga perché l’arma potesse essere portata al fianco.

«Il re è andato a caccia» stava dicendo la regina ai due cavalieri inginocchiati «ma sono certa che al suo ritorno sarà molto lieto di vedervi.»

Sansa non riusciva a staccare gli occhi dal terzo uomo Lui parve percepire di essere osservato e lentamente ruotò il capo verso di lei. Lady ringhiò e Sansa si sentì invadere dal terrore più cieco che avesse mai provato. D’istinto, arretrò finendo addosso a qualcuno.

Mani forti l’afferrarono per le spalle. Per un attimo, Sansa credette che si trattasse di suo padre, ma quando si girò vide la maschera sfigurata dal fuoco di Sandor Clegane, il Mastino, con la bocca atteggiata alla smorfia grottesca che era il suo sorriso.

«Stai tremando, ragazzina.» La sua voce era una specie di rantolo. «Ti faccio davvero così paura?»

Le faceva paura, certo, tanta. Le aveva fatto paura fin dalla prima occhiata che aveva gettato al suo volto devastato. Eppure quella paura sbiadiva al confronto di quanta gliene instillava il volto del cavaliere senza nome.