Dopo qualche istante si aprì uno spioncino sopra il batacchio e uri occhio grigio e acquoso ispezionò Juno.
— Voglio vedere quel disgraziato di mio marito — urlò lei, ma la sua voce aveva perso qualcosa della solita sicurezza.
— Calmati, Juno — disse una voce, che Phil riconobbe per quella di Sacheverell Akeley. — La tua aura è tutta offuscata; riesco a stento a vederti.
— Stammi a sentire — muggì Juno — o mi lasci entrare o sbatto giù la tua schifosa catapecchia.
Certo Juno esagerava un po’, pensò Phil, ma quella minaccia non poteva essere presa alla leggera. Sacheverell però non si scompose — No, Juno — disse fermamente. — Non ti posso lasciare entrare con tutte quelle vibrazioni ostili, mentre emani ormoni d’odio. Più tardi, forse, quando potremo aiutarti a ritrovare la tua tranquillità interiore, ma non ora.
— Aspetta — si lamentò Juno con un tono sorprendentemente docile. — Ho portato un amico che deve sbrigare degli affari con te — e si fece da parte.
— Che affari? — chiese Sacheverell scettico.
Phil, guardando dritto nello spioncino, disse: — Il gatto verde.
La porta si aprì e Sacheverell, non più in berretto e pantaloni arancioni, ma in una tunica color bronzo ricamata di verde, fece cenno a Phil di entrare con un braccio coperto di frusciante seta. La sua marcata abbronzatura gli conferiva un’aria da mistico orientale. — Tutte le porte sono aperte per colui che pronuncia questo nome — disse semplicemente. — Siete disposto a garantire di tener quieta la vostra compagna?
— Non ho intenzione di toccare niente e nessuno qui dentro — grugnì sgarbatamente Juno, infilandosi dietro a Phil. — Mi sento già abbastanza sporca.
— Le rose nascono dallo sterco, Juno — le ricordò gentilmente Sacheverell — e dal male fiorisce il bene. Sii felice di poter partecipare al grande mutamento.
Phil si trovò sulla soglia di una grande sala. Nuvole di incenso grigio si avvolgevano a spirale fra mobili vittoriani su cui erano sparsi in gran profusione oggetti e ornamenti appartenenti a tutte le religioni del mondo. Anche qui l’illuminazione consisteva in lampade a incandescenza, che lasciavano ampie zone d’ombre. All’estremità opposta della sala c’era una porta nascosta da pesanti tende di velluto nero. Mescolato all’odore resinoso dell’incenso si avvertiva un tanfo pesante di cibo avariato, di vestiti, di corpi umani e un odore penetrante di animali.
Allora Phil si accorse che la stanza brulicava letteralmente di gatti: neri, bianchi, topazio, argentei, soriani; a strisce, chiazzati, macchiati, a bande; a pelo corto, angora, persiani, siamesi, mutanti. Saltavano dalle spalliere delle poltrone e dagli scaffali; sbirciavano vivacemente da sotto i tavoli o con aria assonnata fra un cuscino e l’altro; si aggiravano a passettini furtivi o stavano immobili in pose regali. Uno era sdraiato per tutta la sua lunghezza sul Corano intessuto al centro di un tappeto di preghiera. Un altro si era sistemato su una stella a cinque punte, in argento annerito, intarsiata sul piano scuro di un tavolino. Un altro giocava con un amuleto che pendeva da una parete, una specie di piccola scatola di cuoio; un altro annusava una statuetta steatopigia, dai molti seni; un altro ancora si stava avvolgendo pigramente in un rosario; due leccavano del latte piuttosto sporco da un calice d’argento tempestato di ametiste.
Allora, per la seconda volta, Phil sentì il cuore balzargli in gola, perché al centro di una mensola, posta su un autentico caminetto, in mezzo fra un’icona dorata e una maschera messicana di latta che rappresentava un demone, era seduto, regalmente immobile, le zampe anteriori dritte come lance… il gatto verde.
Mentre Phil vi si avvicinava come ipnotizzato, udì Sacheverell che diceva gentilmente: — No, quello non è il vero gatto, ma un suo simulacro, l’antico precursore egizio, una statua di Bast, la divinità della vita e dell’amore.
E infatti Phil si accorse di avere davanti una semplice statuetta di bronzo, coperta di verderame, quasi della identica sfumatura di colore del pelo di Lucky. Sacheverell lo raggiunse e disse: — Non appena Lui è venuto ho tirato fuori tutte le nostre reliquie di Bast. La maggior parte sono là — indicò la tenda di velluto nero — attorno all’altare. Altre qui. — E mostrò, vicino alla statua, un piccolo sarcofago contenente la mummia di un gatto, avvolta in bende di lino, che sembrava un sacchetto con una protuberanza in cima. Mentre Sacheverell illustrava il significato di una piccola urna contenente le interiora preservate di un gatto, un siamese a sei polpastrelli saltò sulla mensola e cominciò ad annusare con circospezione la mummia.
Finalmente Phil ritrovò la voce. — Allora Lucky è veramente qui?
Le sopracciglia curve di Sacheverell si inarcarono ancora di più. — Lucky?
— Il gatto verde — spiegò Phil.
Il viso di Sacheverell si fece solenne. — Nessuno ha il gatto verde — disse con tono di rimprovero. — Non sarebbe permesso. È Lui che ha noi. Noi siamo i suoi umili adoratori, i suoi sommi sacerdoti.
— Ma io voglio vederlo — disse Phil.
— Ciò sarà permesso — lo rassicurò Sacheverell — quando Egli si sveglierà e il mondo si trasformerà. Nel frattempo, calmatevi, caro… Phil Gish, vero? Phil… filo… amore… un nome di buon augurio.
— Perché diavolo questo gatto verde è tanto importante? Che cos’è?
I due uomini si voltarono. Juno era ancora ferma sulla soglia. Chinata leggermente in avanti, con le braccia incrociate, la testa incassata fra le spalle, li guardava con aria imbronciata, con un’espressione ribelle sul volto.
— Il gatto verde è amore — le disse dolcemente Sacheverell. — L’amore che sboccia anche dall’odio.
Ci fu un’altra interruzione: una risatina fanciullesca che proveniva da un punto della stanza di fronte al caminetto a cui Phil prima non aveva fatto caso. Scorse un’alcova ampia e profonda con finestre chiuse da persiane grigie, come tutte le altre finestre della stanza tranne quella a fianco del caminetto, che guardava verso il buio. Nell’alcova c’era un divano semicircolare sul quale era sdraiata Mary Akeley, in una posa da adolescente, ancora vestita col maglione nero e la gonna rossa rigida.
— Sapete — disse — non riesco proprio ad abituarmi all’idea di amare tutti. Sacheverell dice che devo comportarmi bene con la mia piccola gente e smettere di punzecchiarli con gli spilloni e cose del genere, ma è difficile.
Per un attimo Phil ebbe la spiacevole sensazione che la donna si riferisse ai gatti. Poi notò una serie di piccoli scaffali alle sue spalle, che iniziavano sopra la spalliera del divano e finivano a metà parete, pieni di bamboline. Avvicinandosi, si accorse che non si trattava di normali bambole, ma di figurine umane estremamente realistiche, alte non più di quindici centimetri. Non aveva mai visto delle bambole modellate e vestite così perfettamente. Ce n’erano due o trecento. Nei loro scaffali, dietro a Mary, sembravano uno spaccato di un’affollata strada a tre livelli in un mondo in miniatura. Davanti al divano c’era un tavolo basso coperto di pezzi di cera, stampi, microattrezzi e lenti d’ingrandimento, parecchie statuette semifinite e quadratini di stoffa così delicata che doveva essere stata tessuta su ordinazione.
— Vi piace il mio piccolo popolo? — sentì che gli chiedeva Mary. — Piace quasi a tutti. Ho cominciato facendo delle bamboline che riproducevano delle spogliarelliste, ma queste, sono tutte mie, e sono molto più divertenti. Sacheverell, caro, io credo che loro siano contente di farsi infilzare da me. Penso che sia questo il modo in cui vogliono essere amate.
— Forse, mia cara — disse Sacheverell con un risolino affettuoso — ma adesso dobbiamo vedere come la pensa Lui.