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Poi raggiunse la finestra e il suo umore subì un ulteriore cambiamento, che gli fece dimenticare tutti i suoi timori.

La finestra si apriva a strapiombo su una strada angusta dominata dalla facciata esterna del gigantesco hotel riadattato in cui abitava Phil. Sporgendosi dal davanzale, a rischio dell’osso del collo, poteva sbirciare al di là della strada e scorgere l’angolo ricoperto di scritte pubblicitarie del Centro di Lotta della Divertimenti SpA con il suo eliporto sul tetto. L’hotel era stato costruito come residenza di lusso per i nuovi ricchi della guerra degli anni Settanta, ma durante la grande crisi di alloggi del decennio successivo le sue vaste stanze erano state suddivise in tante cellule dormitorio. L’edificio tuttavia conservava ancora alcuni segni dei suoi giorni di gloria: le ampie finestre rotonde munite di doppi vetri polarizzati, di cui quello interno poteva essere ruotato in modo da ottenere la perfetta trasparenza oppure la completa oscurità, con tutte le gradazioni intermedie. Ma c’era un altro lusso fuori dal comune: le finestre erano vere finestre e si potevano aprire. A causa del riscaldamento radiante dei letti e dei guasti del sistema di condizionamento dell’aria, quest’ultima possibilità era sfruttata più spesso di quanto ci si sarebbe potuto aspettare, anche se i vetri erano tenuti chiusi per la maggior parte delle ore diurne.

A Phil l’interminabile parete grigia sotto la sua finestra, con quelle file di orribili oblò quasi tutti oscurati, era sempre sembrata la vista più opprimente del mondo: un simbolo di come lui stesso fosse escluso dalla vita e dalla gente.

Ma ora, mentre si sporgeva solo un poco, sfiorando con la testa il bordo circolare, scoprì di potere attraversare quel muro col pensiero, quasi che esso fosse composto di un qualche materiale che conduceva le emozioni, come un filo di rame conduce l’elettricità. Gli pareva non di vedere o pensare attraverso il muro, ma di sentire la trama molteplice di calde, pietose, ammirevoli, ridicole vite umane racchiuse in quei cubicoli: quelle felici per due quinti, e quelle tristi per nove decimi. Le vite di coloro che nutrivano paure e frustrazioni perché bisogna pur nutrire qualcosa, e le vite di quelli che facevano delle proprie paure e frustrazioni una pietosa armatura: il vecchio che sceglieva preoccupato fra le magre tessere alimentari guadagnate in tre guerre comunisto-capitaliste; il ragazzino che giocava all’astronauta e faceva finta che la finestra oscurata fosse il portello di un incrociatore spaziale da fumetti; le tre segretarie disoccupate (una delle quali stava camminando su e giù); i due amanti il cui incontro era turbato dalla paura del Federal Bureau of Morality; l’uomo grasso che si godeva le carezze di una ragazza attraverso la sensoradio e pensava a un tempo lontano; la vecchia signora piena di paure per i germi bellici e le ceneri radioattive che spolverava, spolverava, spolverava…

La sua nuova personalità era dotata di una straordinaria immaginazione, concluse Phil sorridendo.

Una vecchia mano sbucò da una finestra tre piani più sotto e scosse qualcosa, o forse niente, da uno straccio.

Si trattava di una coincidenza, senza dubbio, oppure gli era capitato una volta di osservare la donna, e poi se n’era dimenticato. Tuttavia Phil decise di interpretare quell’evento come un’incoraggiante conferma delle sue nuove facoltà. Poi il sorriso gli svanì dalle labbra, mentre pensava alla parete e a quello che c’era dietro di essa.

A quella finestra aveva tascorso un’infinità di ore noiosamente eccitanti a spiare le attività di tutte le giovani donne i cui cubicoli si trovavano anche lontanamente nel suo campo visivo. Tutte, tranne la nuova ragazza dai capelli neri, legati a coda di cavallo, che abitava proprio il cubicolo di fronte al suo, e che di tanto in tanto aveva sentito esercitarsi al tip-tap. La sua finestra era un po’ troppo vicina, e poi, malgrado fosse piuttosto bella, si sentiva vagamente intimorito da lei. C’era qualcosa di inquietante in quella ragazza, di ferino, e in ogni caso i suoi vetri erano sempre oscurati con cura. Anche in quel momento infatti la finestra era buia, anche se leggermente aperta.

Ma tutte le altre ragazze erano state oggetto del suo instancabile quanto sterile interesse. A cominciare da quella carina, biondo-verde che abitava in basso a sinistra, la signorina Phoebe Filmer (era perfino riuscito, con insolita determinazione, a scoprire il suo nome): aveva dedicato una buona parte del suo tempo libero a quella eccitante civetta. E infatti eccola lì, proprio in quel momento, che si aggirava con addosso una vestaglietta molto corta, ispezionando vari capi di biancheria intima. Era una situazione estremamente promettente, che normalmente avrebbe inchiodato il povero Phil per una ventina di minuti o anche più. Ma ora scoprì di poter distogliere lo sguardo senza timore di perdere qualcosa. Buon Dio, se voleva vedere di più, in tutti i sensi, della signorina Phoebe Filmer, non doveva far altro che cercare di conoscerla.

— Prrrt! — Una palla morbida e pelosa si posò sulla sua mano e guardando in basso vide il musetto verde di Lucky incorniciato fra il suo pollice e l’indice.

— Cosa c’è, micio?

Lucky piegò la testa in modo da sfregare la fronte e l’orecchio contro la sua mano e posò le zampe anteriori sul bordo della finestra. Subito Phil circondò con il braccio il petto del gatto. Non voleva che Lucky raggiungesse il davanzale esterno. Anzi, si rese conto, improvvisamente, che non voleva che Lucky lo lasciasse; ma qualcosa gli diceva che non sarebbe stato in grado di fermarlo, se il gatto avesse veramente voluto andarsene.

Con una certa vergognosa soddisfazione gli venne in mente che tutti gli animali domestici erano rigorosamente vietati nella Skyway Tower (i gatti e i cani erano diventati piuttosto rari dai tempi della guerra batteriologica, quando erano stati decimati come possibili portatori di germi), per cui il proprietario, apertamente, non avrebbe potuto far nulla per reclamarlo indietro.

Ma Lucky non pareva avesse alcuna intenzione di andarsene. Saltò sul pavimento e guardò Phil con aria affamata.

— Prrrt!

— Vuoi qualcosa da mangiare, vero?

— Prrrt-prt!

Phil fece mentalmente un inventario delle provviste e la sua scelta cadde, senza sapere il perché, sul concentrato di mirtilli. Sembrava del tutto inadatto per un gatto, eppure qualcosa gli diceva che per Lucky sarebbe andato benissimo.

Fu presto fatto. Immerse nell’acqua una tavoletta rosso scura, dura come il marmo, che immediatamente si gonfiò fino ad assumere le dimensioni di una palla da golf color rubino. Poi, seguendo un altro impulso improvviso, ci versò sopra il contenuto sciropposo di una capsula di vitamine.

Quest’ultimo ingrediente aveva un odore piuttosto rancido, e posando a terra lo strano miscuglio Phil cominciò a nutrire qualche dubbio. Lucky invece l’esaminò con evidenti segni di approvazione, miagolando avidamente. Ma non si mise a mangiare, rimase a guardare l’uomo. A Phil venne in mente che i gatti sono molto gelosi della loro intimità, e forse Lucky voleva mangiare da solo.

— Bene, amico, io vado a farmi la doccia. E ti prometto di non spiare.

Nel bagno, regolò i rubinetti in modo da avere un getto alternativamente tiepido e molto caldo. Ma, senza ragione, la doccia si mise a somministrargli scrosci di acqua gelida e bollente. Balzò da sotto il getto con un urlo. Tuttavia l’incidente non cambiò affatto il suo buon umore. Mentre si asciugava da solo (non gli piaceva il getto d’aria calda, e i robot asciugatori lo mettevano a disagio) cantò: