— Phil Gish, di Radioluna America — rispose Phil incautamente, ma le ultime parole si persero nel rombo dei razzi.
L’altra macchina era almeno a cinque isolati di distanza quando erano partiti all’inseguimento. Mentre Phil si districava con difficoltà dal groviglio in cui l’aveva cacciato la brusca accelerata, notò che la distanza si era ridotta quasi a un isolato.
— Spegni i jet — ordinò Greeley. — Possiamo bloccarla col motore normale; ma sta’ attento che non ci sfugga. Potrebbero avere i razzi anche loro. Che posizione avete nel Progetto Micio, Phil?
— Sono una specie di osservatore speciale — improvvisò Phil, boccheggiando, e tenendosi aggrappato con due mani. — La mia sezione ritiene che il gatto verde potrebbe anche non essere pericoloso.
— Come? — chiese Greeley, scrutando davanti.
— Non l’avete sentito, alla Fondazione?
— Sentito cosa? — chiese Greeley, misurando la distanza sempre più corta fra i due veicoli. — Quel senso di terrore?
— No. Di pace, di compensione…
Ma proprio in quell’istante la macchina di fronte a loro rallentò leggermente e ne venne gettato fuori qualcosa di verde, che rotolò su se stesso una dozzina di volte, e poi sfrecciò verso un vicolo.
— Frena! — urlò Greeley, e Phil quasi venne rovesciato addosso all’uomo di fianco al guidatore mentre i retrorazzi entravano in azione e la parte posteriore della macchina si sollevava. Poi si accorse di essere rimasto solo nella macchina e si precipitò fuori.
— È un vicolo cieco. Non può uscire — stava dicendo Greeley. — Avanziamo affiancati. Gish, voi stategli dietro.
— Non fategli del male — avvertì Phil.
— Non ci pensiamo neanche! — gli gridò Greeley.
Ormai Phil li aveva raggiunti, e poteva vedere il gatto verde accucciato alla fine del vicolo, a sette o otto metri dalla linea degli uomini che avanzavano, pronto a difendersi.
La distanza si ridusse a tre metri. Il gatto scattò in avanti, procedendo di sbieco, prima da una parte poi dall’altra; infine si lanciò fra Greeley e l’uomo alla sua destra, dritto verso Phil che lo attendeva a braccia aperte.
— Lucky! — esclamò al colmo della felicità, sollevando il gatto.
Cinque artigli gli graffiarono dolorosamente il mento, mentre altri cinque affondavano nella pelle delle sue mani.
Guardò il piccolo musetto. A parte il colore, era quello di un normalissimo, anche se arrabbiatissimo, gatto. E si sentiva ancora l’odore della tintura.
— Ecco — disse calmo e porse l’animale a Greeley.
— Lucky? — gridò Greeley, mentre gli artigli graffiavano anche le sue mani. — È solo un gatto tinto, maledizione! L’avevano preparato prima, e l’hanno gettato fuori per trattenerci. Avanti! Prendilo tu, Simms, dobbiamo tenerlo, per maggior sicurezza.
Presumibilmente, fu Simms questa volta a provare le trafitture delle unghie del gatto. Gli uomini dell’FBL risalivano in macchina.
Ma Phil non li seguì. Non ne ebbe il cuore. Mentre i razzi rombavano ancora, restò lì nel vicolo, stanco e graffiato.
16
Mentre la porta dell’ascensore si chiudeva alle sue spalle, e iniziava la faticosa salita dal ventottesimo al ventinovesimo piano, Phil si stava già rammaricando di non aver accettato l’invito di Phoebe Filmer a bere qualcosa nella sua stanza. Quando lei gli si era avvicinata nell’ingresso, per ringraziarlo di come l’aveva salvata al Tan Jet, l’idea di stare in compagnia di un essere umano gli era sembrata insopportabile. Ma ora che soltanto il vuoto echeggiante di una rampa di scale lo separava dalla solitudine della sua stanza, si accorse all’improvviso che la cosa di cui più aveva bisogno era proprio la compagnia.
E pensare che solo il giorno prima era uscito dalla sua stanza pieno di energie, pronto ad affrontare ogni avventura. Ne aveva avute tante di avventure, ed era stato preso a schiaffi dalla vita in modo tale che si sentiva ancora tutto frastornato. Certe volte, durante quelle incredibili ventiquattro ore, gli era sembrato che la sua intera personalità stesse cambiando, che si stesse trasformando nell’intrepido ma sensibile avventuriero e amante che aveva sempre sognato di essere.
Invece eccolo lì, che si trascinava stancamente verso la sua stanza, dopo essersi comportato un’ennesima volta come un codardo e aver detto “No” quando invece soltanto dieci secondi dopo avrebbe desiderato con tutto il cuore di aver detto “Sì”. Anzi, a giudicare dalla velocità con cui stava ricadendo nelle sue vecchie abitudini, c’era da aspettarsi che passasse il resto della serata a spiare Phoebe Filmer dalla finestra oscurata.
Certo, poteva scusarsi dicendo che non c’era alcuna ragione per pensare tanto a una ragazza di ordinaria bellezza, quando aveva appena incontrato una donna così perversamente desiderabile come Mitzie Romadka e aveva visto un incanto come Dora Pannes, per non parlare di personaggi grotteschi ma interessanti come Juno Jones e Mary Akeley. Ma queste erano tutte scuse, e lui lo sapeva. Phoebe Filmer era più alla sua portata, benché sempre non abbastanza per lui.
Oppure poteva dirsi, ancora una volta, che se soltanto Lucky fosse stato al suo fianco, sarebbe tornato ad essere coraggioso e intraprendente. Ma neppure questo era vero. La realtà era che tutto stava diventando più grande di lui. Voleva il gatto verde, certo, ma lo voleva come un animaletto domestico, come una mascotte, un portafortuna, qualcosa che gli dormisse ai piedi del letto. Non un mostro misterioso, un mutante che lo coinvolgeva con lottatori, fanatici religiosi, psicoanalisti dal grilletto facile, ragazze con gli artigli, banditi, scienziati di fama mondiale, telepati, centrali del vizio, assalti dell’FBL, criminali nazionali e internazionali, e un sacco di altre cose che erano decisamente troppo grandi per Phil Gish.
Disse la parola in codice che faceva aprire la sua porta, entrò e stava per chiudere, quando si accorse di non essere solo.
A carponi sul pavimento, apparentemente per guardare sotto il letto, ma ora con il viso rivolto nella sua direzione, c’era la ragazza dai capelli neri e dall’aspetto faunesco della finestra di fronte. Si sentì gelare il sangue. Con la mano stringeva la maniglia della porta non ancora chiusa, pronto a spalancarla e a scappare.
Lei si alzò lentamente, sorridendo. — Salve — disse con voce calda, in un accento straniero che Phil non riuscì a identificare. — Ho perso una cosa… penso che forse è nascosta qui. — Si lisciò il vestito nero a disegni grigi che le aveva visto togliersi la sera prima. Poi si passò una mano fra i capelli e lungo la coda di cavallo.
— Cosa? — chiese Phil con voce rauca, stringendo ancora la maniglia. Ogni volta che la guardava negli occhi, non poteva fare a meno di abbassare immediatamente lo sguardo alle scarpe alte venti centimetri che portava ai piedi.
— Sì — rispose lei — un… come si chiama… un micio. — Poi, dopo una pausa: — Vi comportate come se conosceste me. — Il suo sorriso si allargò e fece un gesto di rimprovero col dito. — Avete spiato da finestra, cattivello?
Phil inghiottì senza riuscire a dire una parola, tuttavia quell’osservazione gli fece apparire la ragazza molto più umana. Le allucinazioni non fanno arrossire.
— Non importa — lo rassicurò. — Finestre di fronte… Perché no? Stessa cosa… Finestre di fronte, un poco aperte… Forse mio micio saltato di qua. Allora sono passata per vedere.
— Siete passata? — chiese Phil nervosamente, guardandole ancora una volta le gambe.
— Certo — disse lei sorridendo, e indicò la finestra. — Venite a vedere.
Con notevole riluttanza, Phil abbandonò la maniglia e si avvicinò cautamente alla finestra aperta. Fra i due davanzali era posata una scala pieghevole dall’aria piuttosto fragile, fatta di un metallo grigio.
Phil si voltò a guardarla. — Era un gatto verde? — chiese bruscamente.