— Phil, non avevi detto a me — disse Dytie guardandolo con occhi brillanti.
— Oh no, non l’ha fatto — disse il dottor Romadka ironico.
— Perché no? — chiese lei. — Non importa a me. Se a lui piace, okay.
Romadka la guardò con disprezzo. — Una tipica esibizionista, vero. E anche ninfomane.
Dytie si mise le mani sui fianchi. — Senti, io non sono buona dire parole lunghe. Ma tua diagnosi sbagliata. Non è ninfomania, è satinasi. Faccio vedere. — E cominciò immediatamente a togliersi una calza. Phil la guardò con un misto di fascino e di orrore.
Romadka si alzò irritato. — Non mi è mai capitato… — cominciò. — Se credete che facendo appello ai miei istinti sessuali…
In quel momento Dytie si tolse la scarpa, il falso piede, e sollevò il delicato zoccolo nero e il garretto sottile, coperto di pelo, per farglielo vedere. — Ecco qua, immune dalle illusioni — disse accalorandosi. — Guarda bene. Satinasi!
Le ginocchia del dottor Romadka cominciarono a tremare. La sua faccia era diventata grigiastra e gli occhi gli stavano uscendo dalle orbite.
Senza preavviso Dytie si alzò, girò su se stessa e lasciò partire un calcio molto accurato. Il paralizzatore schizzò via dalla mano tremante del dottore e andò a finire contro il muro. Romadka ritirò la mano di scatto, come se lo zoccolo fosse quello del diavolo in persona, e uscì precipitosamente dalla stanza. Il rumore dei suoi passi veloci e irregolari svanì lentamente. Phil poteva immaginarsi benissimo come si sentiva il dottore. Ci mancava poco che non si mettesse a correre anche lui.
Dytie, ridendo di cuore, saltellò fino alla porta, la richiuse e prese la pistola di Romadka.
— Questo paralizzatore? — chiese.
Phil si inumidì le labbra, afferrandosi al bordo del tavolo per sostenersi. Sapeva che la sua faccia doveva avere lo stesso colore di quella di Romadka. — Dytie — riuscì finalmente a dire, battendo i denti — tu vieni da un paese molto più lontano dell’Argentina.
Lei sorrise con aria di scusa. — Giusto, Phil. Ho storia molto più lunga che tua da raccontare.
Phil fece un cenno tremante con la testa — Ma prima, se non ti dispiace. — Non riuscì a proseguire, e indicò la scarpa, il piede e la calza che giacevano a terra.
— Certo, Phil, capisco. — Li prese e sì sedette sul bordo del letto per rimetterseli. Phil seguì i suoi movimenti con un senso di disagio, ma quando lei fu sul punto di infilare lo zoccolo nella cavità del falso piede indietreggiò distogliendo lo sguardo.
Nel frattempo lei stava dicendo in tono pratico: — Tu non detto all’uomo immune da illusioni, ma hai idea dov’è micio?
— No — rispose Phil nervosamente — ma so dove potrei scoprirlo.
— In questa città?
— Sì.
— Porti me là, Phil?
— Immagino di sì.
— Tu anche vuoi trovare micio, Phil?
— Sì. Credo di sì.
— Bene. Puoi guardare ora.
Si fece forza e le lanciò un’occhiata, poi tirò un sospiro di sollievo. Le gambe erano tornate ad essere quelle di una qualsiasi ragazza. Illudersi, decise, talvolta è indispensabile.
— E adesso — disse — puoi rispondere a quelle mie domande.
Proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta.
— Questa volta è tua ragazza — disse Dytie ottimista.
Ma Phil non intendeva correre altri rischi. Aprì lo spioncino unidirezionale e si trovò a guardare dritto in faccia Dave Greeley.
— È l’FBL — sussurrò a Dytie, che balzò in piedi. Durante il suo racconto gli aveva fatto numerose domande sul Federal Bureau of Loyalty, alle quali lui aveva risposto dettagliatamente. E doveva essere giunta a delle conclusioni ben precise. — Dobbiamo filare, Phil. No tempo per domande risposte ora. — Saltò agilmente sul davanzale e poi sulla scala.
Non era lunga come la trave degli Akeley, ma era dieci volte più alta, e Phil non era ubriaco. Se non avesse camminato su quella trave, e se non fosse sceso dallo scivolo di servizio del dottor Romadka, non avrebbe mai osato avventurarvisi. Il cuore gli batteva all’impazzata quando raggiunse la stanza di Dytie. Si voltò con la mezza intenzione di togliere la scala, ma dalla sua stanza venne il rumore di qualcosa che si rompeva. Dytie lo prese per un braccio.
— Niente tempo ora — disse, e lo spinse nel corridoio. Pochi secondi dopo entravano nell’ascensore. — Ehi, ma quello è il bottone di salita — l’avvertì lui.
— Lo so, Phil — disse lei in tono rassicurante.
Uscendo sul tetto, Phil provò per un attimo una stupenda sensazione di libertà. Lo specchio al sodio non era ancora tramontato, e tutto intorno a lui era luminoso, anche se le regioni più basse del cielo erano buie e piene di stelle.
Poi vide una mezza dozzina di elicotteri che si stavano abbassando verso di loro come moscerini. Dytie lo stava trascinando verso un angolo vuoto del tetto. Provò una certa irritazione per quel suo inutile affannarsi. Una voce potente dal cielo ordinò loro di fermarsi.
Dytie si fermò quasi sull’orlo del tetto, tastò con la mano nel vuoto, si sollevò di mezzo metro nell’aria e tastò ancora.
Si udì il rumore di un elicottero che atterrava alle loro spalle.
Dytie aprì nell’aria una piccola porta nera come l’inchiostro, ed entrò. Si voltò, il suo viso simile a una pallida maschera nel rettangolo nero. — Vieni, Phil — lo incitò e allungò un braccio fuori dal rettangolo verso di lui.
Phil guardò quel ritratto allucinante incorniciato d’aria. Al di sotto, poteva distinguere chiaramente i muri della casa di fronte e il nastro della strada cinquanta piani sotto.
Dietro di lui si udirono delle grida, e un altro ordine rimbombò dal cielo.
Phil afferrò il polso di Dytie. Annaspando con l’altra mano afferrò un piolo invisibile, poi anche il piede trovò un appoggio. Si arrampicò nel vuoto e rotolò attraverso la porta nera in una nera cavità, su un pavimento curvo. Voltandosi vide un rettangolo di cielo con tre stelle. Il rettangolo si strinse e svanì. Il buio divenne assoluto.
Poi cominciò a cadere.
17
Phil si agitò freneticamente, con l’istintiva speranza di chi precipita verso la morte di poter deformare a suo vantaggio lo spazio tendendo i muscoli allo spasimo.
Poi si chiese quanto tempo ci volesse a cadere per cinquanta piani, ma aveva trovato sempre ostico fare i calcoli a mente.
Poi si domandò come mai la cavità nera cadesse con lui.
Poi vomitò, ma tutto quello che uscì dal suo stomaco fu il fantasma di un sandwich di fermenti e il latte di soia consumato il giorno prima.
Continuò a cadere.
Una luce morbida si diffuse intorno a lui. Si trovava all’interno di una sfera del diametro di due metri e mezzo circa, con i piedi posti al centro e la testa che sfiorava l’imbottitura. Spingendo lo sguardo oltre i propri piedi, scorse Dytie da Silva tranquillamente sdraiata nell’aria e intenta a scrutare uno schermo posto nell’imbottitura della sfera.
Ma stava ancora cadendo.
Phil non ne sapeva molto di astronavi, ma sapeva che non si poteva andare in caduta libera senza prima aver accelerato per liberarsi del campo gravitazionale della Terra.
Ma non c’era stata alcuna accelerazione.
— Dytie! — gridò, e in quello spazio ristretto la sua voce rimbombò assordante. — Cosa mi sta succedendo?
Con un sussulto lei si voltò a guardarlo. — Ssh, Phil. Tu in caduta libera ma non cadi. Ho spento la gravità.
Fra un conato di vomito e l’altro, Phil cercò di afferrare l’idea. — Hai spento la gravità? — Continuava a sentirsi cadere, ma non era più così sicuro che avrebbe colpito qualcosa.