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Solitamente Phil avrebbe provato un certo disgusto, misto a paura e a un’affascinata inquietudine, nell’entrare, o soltanto nel passare vicino a una palestra specializzata in combattimenti fra maschi e femmine, ma quel giorno gli sembrò una cosa del tutto normale. Non gli venne neppure in mente di non seguire Lucky.

Appena prima di un cancelletto girevole e di un robot bigliettario nascosto nell’ombra, si scorgeva l’imboccatura illuminata di un altro corridoio. Lucky vi si infilò come un razzo. Phil aveva fatto appena in tempo a girare l’angolo che un lungo braccio, senza mano e senza ossa, spuntò dalla parete e si piazzò fermamente davanti a lui.

— Dove credi di andare, bello? — gracchiò una voce invisibile. — Torna indietro. — Il braccio gli diede un’energica spinta verso la biglietteria.

Phil vide il gatto che lo guardava con aria interrogativa dal corridoio, sul quale si aprivano varie porte. Cercò di girare attorno al braccio, ma questo si allungò fino a raggiungere la parete opposta.

— Sei ancora qui? — chiese la voce gracchiante. — Sentimi, bello, non conosco la tua voce. Se devi parlare con qualcuno, dimmi il nome e la parola d’ordine.

— Voglio solo prendere il mio gatto — rispose Phil. Lucky aveva raggiunto l’estremità del corridoio e stava sbirciando nell’ultima porta. — Vieni qui, Lucky — chiamò, ma il gatto non gli diede retta.

— Questo nome non significa niente per me — continuò la voce, raucamente. — Non mi hai ancora detto nessun nome che faccia scattare i miei relè.

Lucky sparì attraverso la porta. — Per favore, lasciami passare un momento a prendere il mio gatto — disse Phil, cercando di usare il suo tono più sincero. — Tornerò indietro subito.

— Io non lascio passare nessuno. Dimmi nome e parola, bello, e in fretta.

In quell’istante un terribile senso d’angoscia si impadronì di Phil, come se una luce nel suo cervello si fosse spenta e il suo cuore fosse diventato di ghiaccio. Sapeva che era successo qualcosa a Lucky. Si infilò sotto il braccio grigio e si lanciò in avanti, ma prima che avesse potuto fare cinque passi si sentì afferrare. Il corridoio roteò intorno a lui mentre veniva trascinato violentemente indietro. Si accorse di essere strettamente avvolto dal braccio elastico simile a un pitone. La voce gli chiese nell’orecchio: — Non si passa, bello. Ora devo tenerti finché non arriva il guardiano.

— Lasciami andare! Devo entrare là, hai capito? — gridò Phil. Lottò invano per liberarsi le braccia, senza mai distogliere lo sguardo dalla porta attraverso cui era sparito Lucky. — Lasciami andare!

— Cosa succede qui? — Una donna grande e grossa, con i capelli biondi tagliati corti, il naso rotto, la mascella prominente e due grandi occhi azzurri, era sbucata dalla porta più vicina. — Calmati, figliolo — tuonò avvicinandosi. — Che cosa vuoi?

— Il mio gatto è entrato là — spiegò Phil, cercando di mantenere la calma. — In quella porta là in fondo. — Fece un cenno con la testa verso di essa. — Cercavo di riprenderlo, ma questa cosa mi ha afferrato.

— Il vostro gatto?

— Sì, il mio gatto.

Lei ci pensò su. Phil si accorse per la prima volta, forse perché fino a quel momento la sua attenzione era stata tutta concentrata sulla porta, che la donna indossava dei calzoni aderenti, marroni, ed era nuda fino alla vita. Aveva seni piccoli e spalle massicce, muscolose.

— Va bene — disse lei dopo un po’ — lascialo andare.

— Non mi ha detto né un nome né una parola — si lamentò la voce. — Ha cercato di passarmi sotto. Devo trattenerlo finché non arriva il guardiano.

— Ci vorrà almeno un’ora, se non conosco male Jake. Lascialo andare, stupido robot — disse la donna con voce profonda, da basso. — Quest’uomo è un mio amico. Lo faccio passare io.

— Va bene, signora Jones — disse la voce, in tono imbronciato. Il braccio grigio si svolse d’attorno a Phil e rientrò nel muro.

— Ora va’ a cercare il tuo gatto e fila — disse la gigantessa.

— Grazie mille — disse Phil, voltandosi a metà verso di lei ma controllando sempre con la coda dell’occhio la porta. Lei non rispose, limitandosi a guardarlo con aria dubbiosa, per nulla imbarazzata della propria parziale nudità.

Phil cercò di non correre, anche se il corridoio sembrava non finire mai. Continuava a dirsi che non era successo niente a Lucky, sperando ardentemente che fosse vero. Non si sentiva più né coraggioso né avventuroso. Passò davanti alla porta da cui era uscita la donna, notando vagamente mucchi di indumenti sporchi e un robot dalle braccia di gomma per gli allenamenti. Raggiunse l’ultima porta, dopo aver notato che tutte le altre erano ermeticamente chiuse. Esitò. Non si sentiva nessun rumore. Entrò.

La stanza era grande, col soffitto basso. Alle pareti erano appoggiati degli armadietti e delle panche. All’estremità opposta vi era una porta chiusa, con a fianco due bassi tavoli automassaggiatori, le cui braccia articolate, protese goffamente in alto, li rendevano simili a scarafaggi rovesciati sulla schiena. C’erano anche degli altri attrezzi che Phil non conosceva, ma il pavimento era quasi del tutto sgombro.

Quasi al centro della stanza vi era una scatola marrone, larga una trentina di centimetri. Due uomini, con le spalle rivolte a Phil, la stavano fissando. Uno era piuttosto piccolo, dall’aria agile, vestito con una maglia nera a girocollo e pantaloni neri aderenti, e impugnava una pistola. L’altro era ancora più piccolo e più magro, vestito in modo simile ma di blu. Teneva in mano un filo attaccato alla scatola.

Phil si schiarì la gola. I due uomini lo guardarono con occhi inespressivi, poi tornarono a rivolgersi verso la scatola. Phil avanzò cautamente nella stanza, sbirciando negli angoli in cerca di Lucky. Poi fece un salto all’indietro. Per poco non aveva calpestato un topo morto.

Osservando più attentamente, si accorse che c’erano una mezza dozzina di topi morti sparsi sul pavimento.

Si schiarì ancora la voce, più rumorosamente, ma questa volta i due non lo guardarono neppure. Allora si fece avanti, scavalcando cautamente il topo morto.

Si udì un clic. Una piccola apertura si aprì in cima alla scatola marrone e ne schizzò fuori un topo. Non appena a terra corse via zigzagando freneticamente, scivolando ad ogni curva. Phil aspettava che da un momento all’altro Lucky uscisse allo scoperto e si lanciasse all’inseguimento. L’uomo vestito di nero seguì i movimenti del topo con la pistola. Non si udì alcuna esplosione, né apparve alcuna fiammata, ma il topo si fermò.

— Cerca di sorprendermi meglio la prossima volta, Cookie — disse l’uomo in nero al compagno. — Ti ho visto muovere la mano quando hai premuto il bottone. — I due ripresero la posizione di prima, immobili e all’erta.

Muovendosi cautamente in cerchio, attorno ai due uomini, Phil si mise alla ricerca di Lucky. Ben presto si rese conto che erano pochi i posti in cui avrebbe potuto nascondersi. Gli armadietti erano alti fino al soffitto, e tutti chiusi.

Uno dei topi a terra si mosse. Cookie mise giù il filo con il bottone, prese il topo e lo rimise nella scatola attraverso un’apertura laterale. Phil cominciava a sentirsi inquieto. Gli sembrava che dovesse esserci un nesso fra Lucky e i topi, ma era un nesso privo di senso. I muscoli del polpaccio cominciavano a fargli male a forza di camminare sulla punta dei piedi.

Facendosi coraggio si avvicinò ai due uomini immobili. — Scusatemi — disse nervosamente. — Non avete visto entrare un gatto per caso?

La domanda, al pari dei precedenti colpi di tosse, non ottenne risposta. — Vi prego di scusarmi, ma devo assolutamente trovarlo — continuò sfiorando il gomito dell’uomo in nero. La reazione fu immediata, anche se venne da un’altra direzione. Quello chiamato Cookie lo afferrò per la giacca e lo tirò indietro. I suoi tratti infantili si erano trasformati in una dura maschera.