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— E cos’era? — chiese gentilmente l’analista, abbozzando un sorriso condiscendente.

— Un gatto verde — disse Phil.

Visto che l’analista non rispondeva, Phil lo guardò. Ma il dottor Romadka lo stava semplicemente fissando. I quattro graffi con il sangue raggrumato spiccavano sul suo volto impallidito.

— Un gatto verde, ho detto — ripeté Phil.

— Un gatto verde? — La voce dell’analista sembrava venire da lontano.

— Sì.

— Ummm — osservò l’analista, sprofondando ulteriormente nella poltrona, come se cercasse di raggiungere qualcosa con il piede.

Un campanello emise una nota musicale. L’analista afferrò il telefono. Il suo viso assunse immediatamente un’espressione irata. Parlò con pause piene di significato, durante le quali si accigliava. — Sì… No. Non posso. Assolutamente non posso, vi dico… Non potete farlo, sareste arrestata… Molto bene, allora, ma solo per cinque minuti, avete capito? Vi aspetto.

Riappese il telefono e si rivolse a Phil con un’espressione disperata, che la sua calvizie e i grandi occhi rendevano comica. — È una circostanza molto imbarazzante — disse. — Una mia ex-paziente insiste per vedermi subito, minaccia di fare una scenata all’ingresso se non la ricevo. E lo farebbe. Abbiamo avuto delle discussioni piuttosto violente prima che interrompesse le sedute. Non ho altra scelta che vederla. So come calmarla almeno per il momento, giusto per farla tornare a casa.

— È meglio che vada — disse Phil alzandosi.

— Assolutamente no — protestò il dottor Romadka — Voglio approfondire il vostro caso questa sera stessa. L’ultimo particolare a cui avete accennato ha aperto delle prospettive nuove! No, aspettate cinque minuti nella stanza accanto, dieci al massimo, finché non mi sarò liberato di lei.

— Credo che sia meglio che me ne vada — disse Phil. — Se non vi spiace.

— È impossibile — esclamò l’analista prendendolo fermamente per un braccio. — È gelosissima di tutti gli altri miei pazienti e senza dubbio vi salterebbe addosso nell’istante stesso in cui usciste dall’ascensore. Ve l’ho detto che porta una pistola a spruzzo laminata in oro, piena di acido solforico? È uno dei suoi trucchi. L’unica altra via d’uscita è il montacarichi, ma non è certo fatto per essere usato dagli uomini. No — continuò accompagnando Phil fino a una porta sotto l’arco, ma senza entrare lui stesso — aspettatemi qui per cinque minuti. Ci sono un sacco di cose da leggere, da guardare, da ascoltare… Non è che avrete molto tempo, comunque. Fidatevi di me, Phil. È tutto sotto controllo.

La porta si chiuse. Una rapida occhiata in giro gli mostrò scaffali pieni di libri e di libronastri, un divano, un tavolo in mezzo alla stanza e uno specchio sul soffitto. Poi si ricordò di aver lasciato le sigarette sulla scrivania. Premette il bottone di apertura della porta. Non successe niente. Lo premette di nuovo.

Il dottor Romadka non poteva essersi allontanato più di cinque passi. Cominciò a battere i pugni sulla parete.

— Dottor Romadka — chiamò. — Dottor Romadka!

Le luci si spensero.

5

Phil smise di battere i pugni, e il nero silenzio si chiuse attorno a lui sommergendolo, soffocandolo, come un preambolo della cella d’ospedale e dell’elettrosonno ai quali, ne fu improvvisamente sicuro, intendeva consegnarlo il dottor Romadka. Nell’oscurità sentiva il cuore battergli forte. Il suo respiro affannoso era quello di un animale.

Si chiese disperato perché l’analista, dopo aver preso così alla leggera la sua allucinazione della satiressa, l’avesse immediatamente identificato come un pazzo pericoloso non appena aveva parlato del gatto verde. Gli psicologi, presumibilmente, conoscevano delle cose sul linguaggio segreto della mente che non venivano mai dette alla gente comune: simboli apparentemente innocenti che bollavano un uomo come codardo, stupratore, assassino, traditore, criptocomunista, anticonformista. Si ricordò di un frammento di conversazione che aveva udito da qualche parte: «Naturalmente, non appena lui interpretò la macchia in quel modo lo portarono in manicomio».

Si udì uno scatto secco. Phil sobbalzò e guardò in alto. Una sottile lama di luce apparve sul soffitto, si allargò, proiettando un ovale luminoso sul tavolo. Si rese conto che lo specchio era scivolato di lato. Non riusciva a vedere molto della stanza soprastante, a parte delle file di microfilm e un pezzo di una macchina tele-lettrice, di quelle che potevano collegarsi con tutte le microlibrerie d’America. Da dove si trovava non poteva scorgere nessuna figura umana, ma non voleva entrare nel fascio di luce. Si chiese, con un certo incredulo orgoglio, se era un tipo tanto pericoloso da essere catturato con una rete, come un pesce. Proprio in quel momento, dal buco ovale, spuntò un piede.

Era un piede delizioso, snello, rivestito della più lussuosa e brillante delle calze, di quelle che offrivano a ogni dito un suo traslucido compartimento. Fra le dita passavano quattro cordicelle di velluto nero che sostenevano una leggerissima scarpetta nera e che davano al piede un aspetto eccitante, pur facendolo assomigliare vagamente a un ragno. Si intravedeva anche una caviglia sottile e un polpaccio ben tornito, che non aveva affatto bisogno della calza per essere affascinante. Era tutto quello che poteva vedere per il momento, ma l’attesa non durò a lungo. Il primo piede fu seguito dall’altro, e subito dopo da tutto il resto della ragazza. Rimase appesa per un attimo, voltandogli le spalle. Ebbe una rapida immagine di un corto abito da sera nero, una mantellina nera, lunghi capelli scuri che cadevano sciolti e bianche braccia coperte da guanti neri che cominciavano sotto il gomito e terminavano alle nocche.

Il suo piede, strisciando sul tappeto, fece un lieve rumore. Di scatto lei si girò come una pantera, con un verso acuto. Il breve movimento colpì Phil per due cose: la prima, che gli venne rivelata dall’aprirsi della mantellina, era che il suo abito da sera cominciava da sotto il seno: una moda di cui aveva letto e fantasticato parecchio, ma che al suo livello sociale non era affatto seguita; la seconda, molto più degna di attenzione, era che le dita della mano destra della ragazza terminavano con degli artigli d’argento e che nella sinistra stringeva un oggetto anacronistico ma piuttosto preoccupante: un coltello dalla lama scintillante, lungo trenta centimetri. Con mossa da spadaccino glielo appoggiò alla gola.

— Ti ha mandato mio padre a spiarmi? — chiese, sibilando le parole.

— No, no — rispose Phil con voce soffocata, cercando di non muovere il pomo d’Adamo.

— Cosa ci fai qui allora, nascosto al buio? — chiese premendo un po’ di più con il coltello.

— Vostro padre mi ha chiuso dentro — disse Phil, piegandosi indie tro.

— Ishtar! Lo fa anche con i suoi pazienti — commentò lei. Il suo tono era ancora dubbioso, ma abbassò il coltello mettendosi in posizione di guardia, cosa che permise alla mantellina di coprirla in modo meno provocante.

— Mi ha chiuso e ha spento le luci — confermò Phil.

Lei socchiuse gli occhi, guardandolo pensosa fra le lunghe ciglia — Potrei quasi credere alla prima parte — disse. — Manda spesso qui i suoi pazienti per osservarli.

— Per osservarli?

Lei indicò il soffitto con un artiglio d’argento. — Lo specchio è trasparente dalla parte di sopra. Gli piace guardare cosa fanno i suoi pazienti quando credono di essere soli, o in coppia. Olimpico guardone! Ma questa sera gli ho lasciato il segno. — Mostrò gli artigli, macchiati di un colore bruno rossiccio.

Phil sentì che lo stomaco gli si rivoltava, ma colse l’occasione per chiedere: — Se lo specchio è trasparente, com’è che non mi avete visto quando mi ha chiuso dentro?

— Lui lo copre sempre quando non lo usa — rispose lei — e a me interessava aprirlo, non guardarci dentro. Ho scoperto la serratura solo mezzo minuto fa. Mio padre probabilmente non sa neppure che esiste. È molto abile nel suo sudicio lavoro, ma di meccanica non capisce niente.