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Dietro di lui Rovic aveva i tratti sconvolti, quali mai ho visto in un volto, e i marinai che li seguivano avevano l’aria abbattuta alcuni, altri sollevata, ma tutti guardavano il campo degli indigeni. Essendo tutti semplici uomini di mare, la Nave era per loro nient’altro che una cosa straniera e inquietante. Ultimo veniva Etien, camminando all’indietro sulla piattaforma metallica e srotolando una lunga miccia.

— In quadrato! — ordinò Rovic. Gli uomini scattarono in posizione. Il capitano disse ancora: — Zhean, Froad, è meglio che stiate in mezzo: è meglio che portiate delle munizioni di riserva, piuttosto che combattere. — Egli si pose in testa a tutti.

Tirai Froad per la manica: — Ti prego, maestro, dimmi che cosa sta accadendo. — Ma egli singhiozzava tanto da non potermi rispondere.

Etien si chinò con una selce e un acciarino in pugno e mi udì, poiché tutti erano silenziosi. Fu dunque lui a darmi una risposta, con voce dura: — Abbiamo sistemato barili di polvere in ogni angolo di quella Nave e li abbiamo tutti collegati con la miccia. E questa è la miccia che farà saltare tutto.

Tanto quest’idea era orrenda, che mi tolse la parola e i pensieri. Come da un’immensa distanza udii la pietra percuotere l’acciaio tra le dita di Etien e udii il nostromo soffiare sulle scintille e poi dire: — Ottima idea, sono d’accordo. T’ho già detto, io seguirei il comandante senza paura della maledizione di Dio… ma è meglio non tentarlo troppo.

— Avanti! — La spada di Rovic brillò sguainata.

Sotto i nostri stivali il suolo risuonava cupamente mentre ci allontanavano in fretta. Non mi volsi a guardare, non potevo farlo, mi dibattevo ancora in un incubo.

Poiché Guzan in ogni modo si sarebbe mosso per intercettarci, procedevamo direttamente verso di lui. Come ci arrestammo al limite del campo, egli si avanzò. Val Nira lo seguiva tremando. Udii confusamente le parole: — Dunque, capitano, quali novità? Torni indietro?

— Sì — rispose Rovic con voce spenta. — Si torna a casa.

Guzan rimase perplesso e sospettoso: — Perché abbandoni il tuo carro? Che cosa hai lasciato laggiù?

— Provviste. Andiamo, via.

Val Nira fissava la lama crudele delle nostre alabarde. Dovette passarsi più volte la lingua sulle labbra prima di riuscir a dire: — Come, capitano? Non c’è motivo di lasciare del cibo sulla Nave. Si guasterà, con tutto il tempo che ci vuole per… per… — Fu preso dall’affanno quando fissò Rovic negli occhi. Il sangue lo abbandonò. Sussurrò: — Che cosa avete fatto?

D’improvviso Rovic sollevò la mano libera e si coperse il volto. Con voce roca rispose: — Ho fatto quello che dovevo, che la Figlia di Dio mi perdoni.

L’uomo delle stelle ci guardò ancora per qualche istante, poi si voltò e prese a correre, correre oltre i guerrieri attoniti, su per il pendio ricoperto di ceneri, verso la sua Nave.

— Torna indietro! — gridò Rovic. — Stolto, non puoi.

Inghiottì a fatica, mentre guardava la solitaria minuscola figura correre incespicando sulla montagna verso la Nave meravigliosa. — Forse è meglio così — disse, come benedicendo. Il suo pugno si strinse sull’elsa della spada.

Guzan levò la sua spada. Era altrettanto imponente, con la corazza di scaglie e i piumaggi sventolanti. — Dimmi cos’hai fatto — ruggì — o ti ammazzerò in questo momento.

Non guardava i nostri moschetti puntati. Anch’egli aveva avuto un sogno. Anch’egli ne comprese la fine, quando la Nave esplose.

Persino quello scafo adamantino non poteva reggere alla deflagrazione dell’esplosivo accuratamente sistemato e innescato contemporaneamente. Ne venne un boato che mi fece piegare le ginocchia e lo scafo andò in pezzi. Frammenti di metallo incandescente volarono sibilando giù per il pendio: ne vidi uno colpire un masso e frantumarlo in due. Val Nira scomparve, disintegrato tanto rapidamente da non poter vedere quel ch’era accaduto: così nel momento estremo Dio aveva avuto pietà di lui. Attraverso le fiamme e il fumo che seguirono vidi la Nave cadere, rotolando giù per la china, seminandosi dietro frammenti contorti. Poi la montagna muggì, si sfaldò e la seppellì, e la polvere oscurò il cielo.

Gli indigeni erano fuggiti urlando; forse pensavano che l’inferno si fosse riversato sulla terra. Guzan restò immobile. Quando la polvere ci raggiunse nascondendoci alla vista la tomba della Nave e il bianco cratere del vulcano insanguinando la luce del sole, il duca balzò verso Rovic. Uno dei fucilieri levò l’arma, ma Etien gliel’abbassò. Così restammo a guardare quei due uomini battersi sul terreno incenerito, poiché sentivamo nella nostra ignoranza che quello era un loro diritto. Scintille sprizzarono dalle lame cozzanti. Fu Rovic infine il vincitore. Colse Guzan alla gola.

Seppellimmo il duca con onore e discendemmo attraverso la foresta.

Quella notte i guerrieri si ripresero abbastanza da attaccarci e, pur aiutandoci con i moschetti, dovemmo combattere soprattutto a lancia e spada. In tal modo ci aprimmo un varco nelle loro file, perché non avevamo altra strada per raggiungere il mare.

Essi si ritirarono, ma ci precedettero in città, così che quando vi giungemmo tutte le forze che Iskilip aveva radunato stavano assediando la Cerva d’oro da un lato e sbarravano a noi la via dall’altro. Formammo di nuovo un quadrato e, benché i nostri nemici si contassero a migliaia, solo pochi poterono incrociare le armi con noi. Ciò non di meno lasciammo sei dei nostri migliori uomini nel fango insanguinato di quelle strade. Quando i nostri compagni sulla caravella compresero che Rovic stava ritornando, presero a bombardare la città, così che i tetti di strami andarono a fuoco e questo distrasse i nemici e rese possibile una sortita dalla nave, in modo che ci congiungemmo e guadagnandoci il passaggio ai moli potemmo salire a bordo, dar di volta all’argano e partire.

Infuriati e coraggiosi, gli indigeni si spinsero colle loro canoe fino al nostro scafo, dove il cannone non poteva tirare, e issandosi uno sulle spalle dell’altro raggiunsero la murata. Un gruppo di loro salì a bordo e fu duro il combattimento per spazzarli via dal ponte. Fu allora che ebbi la clavicola spezzata, il che ancor oggi mi causa sofferenze.

Giungemmo alfine all’uscita della baia e colla fresca brezza da oriente issammo tutte le vele e distaccammo l’orda nemica. Contammo i nostri morti, curammo le ferite, dormimmo.

Il giorno seguente, destato dal dolore alla spalla e dall’altro dolore, più profondo, dentro di me, montai sul cassero. Il cielo si era coperto e il vento aveva rinforzato; il mare era gelido e verde e macchiato di bianco in lontananza, verso l’orizzonte plumbeo. Gli alberi scricchiolavano e il sartiame fischiava. Restai un’ora a guardare avanti, avvolto dal vento freddo che acquietava il dolore.

Quando udii un passo dietro di me, non mi volsi, sapevo che era Rovic. Stette accanto a me per qualche tempo a capo scoperto. Notai che cominciava ad avere dei capelli grigi.

Infine, sempre senza guardarmi, stringendo gli occhi nel vento che ci rubava le lacrime, disse: — Sono stato fortunato, quel giorno, di poter parlare con Froad. Era addolorato, ma ammise che avevo ragione. Ti ha parlato di questo?

— No — risposi.

— Del resto nessuno di noi ha molta voglia di parlarne — osservò Rovic. E dopo una pausa: — Non temevo l’eventualità che Guzan o chiunque altro s’impadronisse della Nave e cercasse di diventare un conquistatore: noi di Montalir sapremmo come superare un tal frangente. Né avevo paura degli abitanti del Paradiso, perché quel povero piccolo uomo poteva dire soltanto la verità: non ci avrebbero mai combattuti… non di loro iniziativa. Ci avrebbero portato doni preziosi, ci avrebbero insegnato le loro arti esoteriche e ci avrebbero permesso di visitare le loro stelle.