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— Guarda — disse Froad — non vi sono più dubbi, si può vedere come esso ruoti attorno a un asse, e come le tempeste ribollano nella sua atmosfera. Tambur non deve più essere una cupa leggenda di paura, né una terribile apparizione a chi si avventuri in acque sconosciute: Tambur è una cosa reale, un mondo come il nostro, immensamente più grande, è pur vero, ma sempre uno sferoide nello spazio. E tutt’attorno ruota, insieme con il nostro mondo, sempre volgendo la stessa faccia al suo signore. Le congetture degli antichi sono trionfalmente confermate: e non soltanto laddove affermano che il nostro mondo sia una sfera, bah, questo sarebbe ovvio a chiunque! ma che ci muoviamo intorno a un centro più grande, un giro del quale costituisce il percorso annuale attorno al sole. Ma allora, quanto è grande il sole?

Sforzandomi di comprendere, ricordai: Siett e Balant sono satelliti di Tambur. Vieng, Darou e le altre lune che normalmente vediamo dalla nostra contrada, percorrono sentieri esterni a quello del nostro mondo. Questo è vero: ma che cosa trattiene tutto lassù?

— Questo non lo so. Forse la sfera di cristallo che contiene le stelle esercita una pressione verso l’interno: la stessa pressione, forse, che lega l’uomo al suo mondo dal tempo della Caduta dal Cielo.

La notte era calda, ma io tremavo come sotto le stelle d’inverno. — Allora — sussurrai — possono esservi uomini su… Siett, Balant, Vieng… e financo su Tambur?

— Chi può saperlo? Avremo bisogno di molte generazioni per venirne a conoscenza, e che generazioni saranno! Ringrazia il Signore, Zhean, che tu sia nato all’alba dell’Era che viene.

Froad tornò a prender misure: noioso mestiere, pensavano gli altri ufficiali, ma ora avevo imparato abbastanza dell’arte matematica per comprendere che da quelle interminabili tabulazioni si poteva giungere alla esatta dimensione del nostro mondo e di Tambur, del sole, delle lune e delle stelle, e si poteva conoscere il cammino che essi prendevano attraverso lo spazio, e la direzione del Paradiso. Così i semplici marinai, che borbottavano e facevano scongiuri quando passavano accanto ai nostri strumenti, erano più vicini al vero dei gentiluomini di Rovic, dappoiché Froad esercitava su di essi un grande e suggestivo potere.

Passò del tempo, e quindi cominciammo a scorgere erbe galleggianti sull’acque e uccelli e torreggianti ammassi di nubi, tutti segni dell’approssimarsi della terraferma. Tre giorni più tardi rilevammo un’isola coperta di lussureggiante verzura. La risacca ancor più violenta che nei nostri mari, flagellava le alte scogliere, esplodeva in un turbinar di schiume e ripiombava ruggendo. Costeggiammo con prudenza il littorale, con tutti i gabbieri in coffa a segnalare un approdo, e i cannonieri al pezzo, pronti a far fuoco. Difatti non solo vi erano correnti sconosciute e scogli sommersi, pericoli a noi familiari, ma in passato avevamo avuto scaramucce con dei cannibali nelle loro canoe. Temevamo anche sommamente le eclissi. Lor signori possono facilmente rendersi conto che in quell’emisfero il sole ogni giorno deve passare dietro Tambur, e a quella longitudine l’eclissi avviene circa a metà del pomeriggio, e perdura quasi dieci minuti primi. Oh, visione spaventevole era quella del pianeta primario, così infatti Froad chiamava questo pianeta di fronte al quale Diell e Coint e il nostro mondo insieme non sarebbero stati che un piccolo satellite, che diveniva un disco nero cerchiato di fuoco, nel cielo d’un sùbito affollato di stelle. Un gelido vento spazzava le onde e persino i marosi sembravano ammutolire. Eppure tanto è impudente lo spirito umano, che noi continuavamo a occuparci delle nostre faccende, arrestandoci solo per una brevissima preghiera quando il sole dispariva e pensando più al pericolo di naufragare in quel frangente che alla Maestà di Dio.

Tale è lo splendore di Tambur che continuammo a circumnavigare l’isola anche di notte. Da un levar del sole all’altro, per dodici terribili ore lasciammo che la Cerva d’oro avanzasse lentamente. Verso il secondo meriggio, la costanza del capitano Rovic fu ricompensata: un’apertura nelle scogliere rivelò una profonda insenatura. Il litorale paludoso e coperto di vegetazione marina indicava che, sebbene la marea montasse alta nell’insenatura, questa non era uno di quegli approdi di fortuna temuti dalla gente di mare. Avendo il vento a noi avverso, ammainammo le vele e calammo a mare i canotti, trainando la nostra caravella colla forza dei remi. In quel momento ci sentivamo vulnerabili: avevamo infatti scorto un villaggio all’interno dell’insenatura. Osai chiedere: — Non sarebbe forse meglio restar fuori, signore, e lasciare che siano essi a venire per i primi?

Rovic sputò oltre la murata e disse: — È meglio non mostrarsi mai dubbiosi. Se volessero assalirci con le loro canoe, possiamo dar loro un’annaffiata di piombo, e calmeremo i loro bollori. Ma non mostrando fin d’ora alcun timore, possiamo allontanare il pericolo d’un tranello.

Aveva ragione. In seguito, apprendemmo di essere approdati all’estremità orientale d’un arcipelago i cui abitanti son forti navigatori, se si considera che possiedono soltanto degli scafi a bilanciere. Spesso però queste imbarcazioni raggiungono una lunghezza di cento piedi, e con quaranta pagaie e vele di stuoia possono quasi superarci alla nostra massima velocità, restando più manovrabili. Tuttavia il poco spazio lasciato al carico limita l’autonomia dei loro viaggi.

Sebbene vivano in costruzioni di legno coperte di strami, sono un popolo civile: coltivano la terra e hanno fattorie, pescano; i loro preti hanno un linguaggio scritto. Alti e vigorosi, leggermente più scuri di carnagione e più glabri di noi, colpiscono subito l’attenzione, sia che si presentino ignudi, cosa del tutto comune, sia che si vestano e si ornino di piume e di conchiglie. Nell’arcipelago hanno creato un vasto impero e hanno visitato le più lontane isole del Nord, organizzando commerci. Chiamano il loro paese Hisagazi e Yarzik è il nome dell’isola dove noi eravamo approdati.

Tutto questo imparammo per gradi, mentre c’impratichivamo nel loro linguaggio. Restammo infatti per molte settimane in quella città, dove il signore dell’isola, Guzan, ci accolse dandoci il benvenuto e fornendoci di cibo, alloggio e di quanto avessimo bisogno. Da parte nostra, ce li ingraziammo con oggetti di vetro, rotoli di tessuto di Wondish e simili oggetti di scambio. Ciò non di meno incontrammo molte difficoltà. Essendo troppo paludoso il tratto di spiaggia oltre il limite superiore della marea, non potevamo tirare in secca il nostro pesante vascello e dovemmo quindi costruire un bacino ove procedere ai lavori di carenaggio. Molti di noi soffersero, a causa di un inquinamento, di flusso di ventre e, sebbene il male fosse curato in tempo, questo ci costò un ulteriore ritardo.

— Eppure io credo che le nostre fatiche saranno ricompensate — mi disse Rovic una sera. Aveva preso l’abitudine, avendo scoperto che io ero un discreto amanuense, di confidarmi certi suoi pensieri. Il capitano è sempre un uomo solo e Rovic, figlio di pescatori, corsaro, vincitore della Grande Flotta di Sathayn, elevato per questa impresa al rango di nobile dalla stessa Regina, doveva aver trovato che il mantenere la sua posizione era per lui più difficile che per un gentiluomo di nascita.

Attendevo in silenzio, là nella capanna che gli avevano dato, dove una lanterna di steatite gettava su di noi una luce ondeggiante e ombre gigantesche, e qualcosa frusciava sul tetto di paglia. Fuori il terreno umido digradava oltre le capanne su palafitte e gli alberi fronzuti scendevano verso l’insenatura dove le sabbie rilucevano sotto la luce di Tambur. Lontano, potevo udire un rullar di tamburi, una nenia, un trapestìo di danza attorno a un fuoco sacrificale. Le colline di Montalir sembravano invero assai lontane.