— Dobbiamo temere qualcosa, signore? — domandai.
Egli si mordicchiò i mustacchi. — Non so. Molto dipende da quello che essi pensano di questa loro nave divina… quale che sia la sostanza. Ma l’inferno e la morte si ergano pure contro di noi! Noi non torneremo indietro senza questo dono per la regina Odila!
I nostri ufficiali sbarcarono tra il rullar dei tamburi e le danze degli indigeni piumati. Una passerella era stata eretta per il re al di sopra del livello delle acque. (I popolani, quando la marea giunge alle soglie delle capanne, vanno a nuoto da un luogo all’altro; ovvero se hanno dei carichi da trasportare, si servono di piccole canoe.) Il palazzo, al di là d’un canneto e di vigne opulente, era una lunga costruzione di tronchi piallati. Nelle travi del tetto erano scolpite strane effigi di dei.
Iskilip, l’Imperatore-Sacerdote di Hisagazi, era un uomo vecchio e corpulento. L’ondeggiante acconciatura di piume e pennacchi, lo scettro ligneo sovrastato da un teschio umano, i tatuaggi sul volto, la sua stessa immobilità, ogni cosa contribuiva a farlo sembrare non umano. Sedeva su di un tronco sopraelevato, fra torce che spandevano un profumo dolciastro. I suoi figli erano seduti ai suoi piedi, a gambe incrociate; i cortigiani ai due lati e le guardie allineate lungo le pareti. Essi non hanno il nostro costume di restare attenti e rispettosi; questi giovani dalla solida struttura fisica e dai modi complimentosi, dal cranio rasato, coperti da corazze e scudi ricavati dai dossi scagliosi dei mostri marini, armati di asce di selce e zagaglie dalla punta di ossidiana che possono uccidere con la stessa facilità del ferro, hanno veramente un aspetto feroce.
Iskilip ci salutò con belle parole, comandò che ci venisse portato un rinfresco e ci fece sedere su di un banco non molto più basso che il suo seggio. Ci rivolse molte e precise domande. Nei loro viaggi più lunghi, gli hisagaziani erano venuti a conoscenza di isole lontane dal loro arcipelago. Ci potevano indicare anche la direzione e dare la distanza approssimativa di un paese dai molti castelli, chiamato Yurakadak, sebbene nessuno di essi avesse navigato tanto da giungervi. A giudicare dalla loro descrizione, quel paese non può essere che Giair, raggiunto per via di terra da Hanas Tolasson, avventuriero di Wondish. Mi colpì allora la constatazione che noi realmente stessimo circumnavigando il globo, e solo dopo che quest’improvvisa eccitazione fu scomparsa potei seguire di nuovo la conversazione.
— Come ho detto a Guzan — stava narrando Rovic — un’altra cosa che ci ha condotti qui è la leggenda che voi siete stati visitati da una nave celeste. Ed egli mi ha mostrato come la leggenda fosse verità.
Un bisbigliare crebbe nella sala. I principi si irrigidirono, i cortigiani persero la loro compostezza, persino le guardie si mossero e parlottarono. Lontano, attraverso le pareti, potevo udire il fragore dei flutti. Poi la voce di Iskilip risuonò tagliente: — Hai forse dimenticato che queste cose non sono per i non iniziati, Guzan?
— No. Maestro — disse il duca. Il sudore gocciolava tra i verdi demoni del suo volto, ma non era il sudore della paura. — Questo capitano sapeva già. Anche la sua gente… per quanto ho potuto comprendere, dato che egli ancora ha difficoltà a spiegarsi… anche la sua gente è iniziata e le domande che ha posto sembrano ragionevoli, Maestro. Guarda le meraviglie che hanno portato: la pietra dura e splendente che non è pietra, di cui è fatto questo coltello che mi è stato donato, non è forse la medesima materia con cui è costruita la Nave? E le canne che ha dato a te, Maestro, e che fanno sembrare vicine le cose lontane, non sono simili alla cosa che vede lontano, portata dal Messaggero?
Iskilip si chinò in avanti verso Rovic. La mano nella quale stringeva lo scettro tremava tanto vivacemente che le mascelle del teschio sbattevano sinistramente. Gridò: — Il Popolo delle Stelle vi ha insegnato a costruire tutto questo? Non sapevo!… Il Messaggero non ha mai parlato di altri.
Rovic allargò le braccia e disse: — Non così rapidamente, Maestro, ti prego. Noi siamo poco addestrati al tuo linguaggio, e non ho potuto comprendere una sola delle tue parole.
Il mio signore mentiva. Aveva ordinato a tutti gli ufficiali di mostrar di comprendere gli hisagaziani meno di quanto non potessero in realtà, e tutti ci eravamo impratichiti in questa finzione esercitandoci fra di noi. In tal modo Rovic aveva una perfetta scusante per gli equivoci.
— È meglio che di questo si parli in privato, Maestro — suggerì Guzan, gettando un’occhiata ai cortigiani. Essi gli restituirono uno sguardo di lampante gelosia.
Iskilip si rizzò, scomponendo l’acconciatura regale; le sue parole caddero con durezza, ma erano parole di un uomo vecchio e debole: — Non so. Se questi stranieri sono già iniziati, possiamo mostrar loro quello che possediamo. Ma se non è così… se le parole del Messaggero giungessero a orecchie profane…
Guzan levò deciso la mano; forte e ambizioso, troppo a lungo compresso nella sua piccola provincia, si era d’un tratto infiammato. — Maestro — disse — perché la storia è stata tenuta nascosta per tutti questi anni? In parte per tenere il popolo obbediente, certo. Ma non avete pensato, tu e i tuoi consiglieri, che il mondo intero potrebbe averne un qualche sentore e, volendo saperne di più, potrebbe precipitarsi qui e schiacciarci? Ora, se lasciamo che gli uomini dagli occhi azzurri se ne tornino al loro paese con la curiosità insoddisfatta, io credo che certamente essi ritornerebbero in forze. Perciò penso che non abbiamo niente da perdere rivelando loro la verità. Se essi non hanno mai ricevuto la visita di un Messaggero, se non possono esserci di alcuna utilità, abbiamo tutto il tempo di ucciderli. Ma se realmente sono stati visitati come noi, pensate a cosa potremmo fare, noi e loro insieme!
Tutto questo discorso fu pronunciato rapidamente e senza inflessioni di voce, in modo che noi di Montalir non potessimo comprendere; invero i nostri ufficiali non capirono. Io, giovani essendo le mie orecchie, afferrai il senso, e quanto a Rovic egli mantenne un tal fatuo sorriso da persona all’oscuro di tutto, che io subito compresi come egli non avesse perduto una sola parola.
Così alla fine decisero di condurre il nostro comandante e insieme la mia insignificante persona, dato che nessun notabile di Hisagazi va in giro senza attendenti, fino al tempio. Iskilip in persona apriva la strada, con Guzan e due principi dietro. Dodici guerrieri ci seguivano alla retroguardia. Pensai che la spada di Rovic ci sarebbe stata di poco aiuto, in caso di pericolo, ma tenni chiusa la bocca e lo seguii da presso. Impaziente egli era come un fanciullo nel mattino del Giorno delle Grazie; s’era calcato in fronte un berretto piumato e il suo sorriso sfavillava: nessuno avrebbe detto che pensasse a qualche pericolo.
Partimmo verso il tramonto; nell’emisfero di Tambur si fa meno distinzione fra il giorno e la notte di quanta non se ne faccia da noi. Avendo notato Siett e Balant in congiunzione, non mi stupii nel vedere la città pressoché coperta dall’alta marea; e pure, mentre salivamo per il sentiero che menava al tempio, non riuscivo a pensare a un paesaggio altrettanto estraneo agli occhi miei.
Sotto di noi si distendeva uno specchio d’acqua sul quale i lunghi tetti di strami della città parevan galleggiare; oltre i moli affollati, al di sopra degl’idoli pagani che ornavano la prua delle canoe indigene, si dondolavano gli alberi della nostra nave; la baia più in là si allungava fra coste dirupate fino allo sbocco in mare, dove la risacca si frangeva biancheggiando terribile sulle scogliere. I monti che ci sovrastavano sembravano quasi neri nel fuoco del tramonto, che arrossava una metà del cielo e insanguinava l’acqua. Pallida oltre le nubi intravedevo la spessa falce di Tambur, avvolta da enigmi che nessun uomo avrebbe potuto comprendere. Una colonna di basalto scolpita a forma di testa si profilava contro il pianeta. Sui due lati del sentiero l’erba era alta e secca per il calore estivo. Il cielo, pallido allo zenit, aveva un cupo color porpora a oriente, dove le prime stelle cominciavano ad apparire. Quella notte nessun conforto mi venne dalle stelle, mentre in silenzio continuavamo a marciare. I nativi, a piedi nudi, non facevano rumore, ma le mie suole crocchiavano sulla ghiaia e i sonagli delle scarpe di Rovic tinnivano leggeri.