Prima che le vele, il sartiame e l’ancora restassero danneggiati, i POV avevano sfruttato al meglio la burrasca: avevano lavorato duramente, bordeggiando, navigando contro vento, con le onde che si abbattevano sulla prua, per avanzare il più possibile nel mare interno centrale, chiaramente preoccupati per le scogliere alte un migliaio di metri alle loro spalle a nord, e avevano coperto centinaia di chilometri nei primi due giorni di tempesta. Adesso si trovavano più o meno fra Coprates Chasma e le isole di Melas Chasma, con l’enorme complesso di canyon di Candor Chasma da qualche parte più avanti a dritta.
Poi la burrasca era peggiorata e il cielo era divenuto più scuro; i POV si erano rifugiati, legandosi in posti sicuri sotto coperta e avevano smesso di funzionare nel buio della tempesta di sabbia; le ancore di prua e di poppa (due complesse strutture curve di polimero sintetico fissate a cavi al traino centinaia di metri sotto la nave) avevano ceduto nello stesso giorno. Mahnmut sapeva, avendole viste in precedenza, che a nord c’erano scogliere alte un migliaio di metri e, da qualche parte, l’ampia apertura dei canyon allagati di Candor Chasma; ma per la carica elettrostatica della tempesta di sabbia non poteva usare il localizzatore e da due giorni non aveva più visto una stella o il sole per fare il punto. Per quel che ne sapeva, le scogliere e la fine della loro corsa potevano trovarsi anche solo a mezz’ora di distanza.
«C’è il rischio di colare a picco?» chiese Orphu, il pomeriggio del quarto giorno.
«Le probabilità sono buone» rispose Mahnmut. Non voleva mentire all’amico, perciò aveva cercato di formulare la frase nel modo più ambiguo possibile.
«Puoi nuotare in questa burrasca?» chiese Orphu. Aveva capito che quel "buone" era una cattiva notizia per tutti e due.
«Non proprio» disse Mahnmut. «Però posso nuotare sotto le onde.»
«Andrò a fondo come il proverbiale sasso» disse Orphu, con il leggero rombo che equivaleva a una risatina. «Quanto hai detto che è profonda, qui, la Valles Marineris?»
«Non l’ho detto.»
«Be’, dimmelo ora.»
«Circa sette chilometri» rispose Mahnmut, che l’aveva scandagliata col sonar proprio un’ora prima.
«Rimarresti schiacciato, a quella profondità?»
«No. Ho lavorato a pressioni superiori. Sono fatto apposta.»
«E io rimarrei schiacciato?»
«Ah… non so» rispose Mahnmut. Era la verità, tuttavia sapeva che la serie di moravec come Orphu era stata progettata per lo spazio privo di pressione e per occasionali incursioni nelle zone superiori di un gigante gassoso o nei pozzi sulfurei di Io, non per le micidiali pressioni di un mare salato profondo settemila metri. Era molto probabile che il suo amico sarebbe rimasto schiacciato come una lattina accartocciata oppure sarebbe semplicemente imploso molto prima di scendere ai tremila metri.
«C’è qualche possibilità di arrivare alla costa?» chiese Orphu.
«Non credo» rispose Mahnmut. «Le scogliere sono enormi, ripide, con massi giganteschi alla base. Le onde che vi si schiantano raggiungono ora i cinquanta o i cento metri di altezza.»
«Un’immagine interessante» disse Orphu. «C’è qualche possibilità che i POV ci portino al sicuro in un porto?»
Mahnmut lanciò un’occhiata in giro nel buio dei ponti inferiori. I POV erano al riparo, legati alle travi come tante bambole di clorofilla, braccia e gambe che sbattevano a tempo col violento rollio della nave. «Non lo so» disse e lasciò che dal tono trasparisse tutto il suo scetticismo.
«Allora sta a te farci superare questa situazione» disse Orphu.
Mahnmut s’impegnò al massimo per salvare tutti loro. Il quinto giorno, con il cielo di una tenebra sanguigna e col vento che ululava tra i brandelli delle vele, con i POV impilati come cataste di legno sotto coperta e la doppia ruota sul ponte posteriore legata per tenere dritto il timone, Mahnmut ammainò ciò che restava delle vele e prese lo spago e i grossi aghi che aveva visto usare dai POV per rammendare il polimero; solo che ora lui cuciva mentre la nave rollava di qua e di là, con onde di quindici metri che la colpivano di lato, facendola girare su se stessa, e con l’acqua che inondava la tolda.
Preparò per prima cosa un’ancora di fortuna, più piccola, e la dispiegò dal cavo dell’ancora prodiera per riportare la prua al vento, nel tentativo di evitare l’invisibile ma sempre presente costa sottovento dietro di loro. Aveva iniziato a rammendare la randa triangolare, quando i cavi del timone sotto il ponte si spezzarono. La feluca traballò, imbarcò parecchie enormi ondate d’acqua rossastra, si strappò da sopravvento, poi girò su se stessa e corse di nuovo a favore di vento, con alte onde che si abbattevano sul ponte di poppa. Quando il timone era partito, solo l’ancora di fortuna aveva impedito che la feluca si capovolgesse. Mahnmut andò a prua e lì, mentre le rosse nubi si squarciavano per un attimo e la feluca sormontava l’onda successiva, vide tra la spuma e l’oscurità le alte scogliere del lato nord della Valles Marineris. La nave sarebbe finita sulle rocce in meno di un’ora, se il sistema di governo non fosse stato aggiustato… e presto.
Mahnmut si procurò una fune, andò a poppa per accertarsi che il timone fosse ancora attaccato alla nave (lo era, ma oscillava liberamente sul massiccio cardano) e poi si arrampicò sulla gomena bagnata, fra le onde battenti, attraversò il ponte di mezzo, scivolò giù per le scalette fino al secondo ponte, trovò il centro di governo d’emergenza, una semplice piattaforma con carrucole dove i POV potevano manovrare la nave tirando le gomene della barra se, sopra, il meccanismo di governo era danneggiato, scoprì che le due grosse gomene erano allentate, scese un’altra scaletta nel buio del terzo ponte, accese i fari che aveva sul petto e sulle spalle per illuminare il cammino, cambiò i manipolatori in arnesi da taglio e aprì un foro nel ponte dove pensava che le gomene della barra si fossero rotte. Non aveva idea se era questo il modo in cui erano attrezzate le antiche feluche terrestri (immaginava di no) ma questa grossa feluca marziana era governata da una doppia ruota nell’alto ponte di poppa, che faceva girare due grosse funi di canapa che si dipartivano, correvano lungo ciascuna fiancata mediante un sistema di carrucole e poi si univano di nuovo per scorrere in quel lungo condotto di legno fino alla barra vera e propria che muoveva il timone. Nelle settimane di viaggio, Mahnmut aveva girato per la nave e studiato il sartiame e la disposizione dei vari sistemi di cavi. Se i grossi cavi, uno o tutt’e due, si erano rotti, sfilacciati dalla tensione della tempesta, forse sarebbe riuscito a saldarli, ma prima doveva arrivarci. Se si erano rotti più avanti verso la barra, dove non sarebbe potuto arrivare, tutti a bordo della feluca erano condannati. Mahnmut si domandò se sarebbe saltato giù all’ultimo momento, nuotando sotto i frangenti per superare le alte scogliere, cercando una zona più calma, da qualche parte lungo le migliaia di chilometri della costa di Candor Chasma, dove tirarsi all’asciutto. Una cosa era sicura: non avrebbe potuto portare con sé Orphu. Si infilò nel condotto delle funi della barra, accese i fari e guardò a prua e a poppa. Non riuscì a vedere i cavi.
«Va tutto bene?» chiese Orphu.
Mahnmut sobbalzò al suono della voce via radio nelle orecchie. «Sì» rispose. «Faccio una piccola riparazione al timone.» "Eccoli!" pensò. I cavi gemelli si erano spezzati, i segmenti di poppa erano a circa sei metri nello stretto condotto guida, quelli di prua si vedevano appena, dieci metri più in là. Mahnmut corse avanti e indietro, fracassando il fasciame di legno duro, estraendo dal condotto le sezioni dei cavi grossi come una coscia e tirandole verso il centro, usando ogni erg di energia dei suoi sistemi.