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«Averci sentiti?» ripeté Mahnmut. «Non hanno orecchie.»

«Allora siamo noi, non loro, a fare eco a questa bizzarra realtà nuova» disse Orphu ridendo, ma con un rombo più malaugurante della sua solita risata.

«Di cosa parli?» chiese Mahnmut. A ovest erano adesso visibili rosse scogliere. Si alzavano sette, ottocento metri sull’acqua del delta sempre più ampio del Candor Chasma.

«Pare che siamo in un folle sogno» disse Orphu. «Ma la logica è coerente… in un folle modo tutto suo.»

«Ma di cosa parli?» ripeté Mahnmut. Non era dell’umore giusto per altri giochetti.

«Ora conosciamo l’identità della faccia riprodotta nelle teste di pietra» disse Orphu.

«Davvero?»

«Sì. Il mago. Quello dei libri. Signore del figlio di Sicorace.»

La mente di Mahnmut non ce la faceva nemmeno a collegare con un tratto di matita virtuale quegli evidenti puntini numerati. Aveva il sistema ancora intasato dall’ondata di nanobyte alieni, una quieta ma moribonda lucidità a lui estranea, ma gradita… davvero gradita. «Chi?» chiese a Orphu, senza curarsi se il suo amico l’avesse ritenuto lento di comprendonio.

«Prospero» rispose Orphu.

30

ACCAMPAMENTO DEGLI ACHEI — COSTA DI ILIO

Finora questa serata va proprio come racconta Omero.

I troiani hanno approntato centinaia di falò di guardia appena al di qua del fossato acheo, ultima linea di difesa greca quaggiù sulla spiaggia; ma gli achei, pur battuti sonoramente per tutta la giornata e la sera, fino a notte, nella confusione hanno rinunciato perfino ai fuochi di cottura. Mi sono morfizzato nel vecchio Fenice e mi sono trattenuto vicino alla tenda di Agamennone, dove il piangente (piangente! Il re dei re greci piange!) figlio di Atreo incita i suoi condottieri a radunare i propri uomini e fuggire.

Ho già visto Agamennone usare questa strategia, fingere di voler fuggire per rianimare i suoi uomini alla sfida, ma stavolta, è chiaro, il vecchio re fa sul serio. Agamennone, scarmigliato, corazza sporca di sangue, guance infangate e segnate da rivoli di lacrime, vuole che i suoi uomini fuggano per salvarsi la vita.

È Diomede a sfidare Agamennone, gli dà praticamente del codardo e promette che, se tutti gli altri fuggono, "combatteremo noi due, io e Stenelo, sino al giorno in cui vedremo la conclusione già decisa per Ilio". Gli altri achei lanciano grida a favore di quella spacconata e poi il vecchio Nestore, facendo pesare i propri anni, interviene e suggerisce che tutti si diano una calmata, mangino qualcosa, pongano sentinelle, mandino uomini a sorvegliare il fossato e i bastioni e discutano la proposta, prima di correre alle navi, al mare e a casa.

Ed è ciò che fanno, proprio come Omero ha descritto.

Poi i sette capi delle guardie, guidati dal non più giovane figlio di Nestore, Trasimede, prendono con sé cento guerrieri ciascuno per presidiare nuove postazioni difensive tra fossato e bastione e accendono i fuochi per la cena. La manciata di fuochi greci (ai quali presto si unisce il falò del banchetto di Agamennone) sembrano ben poca cosa a confronto dei fuochi di guardia troiani, dall’altra parte del fossato, le cui faville volano verso le sempre più basse nubi di tempesta.

Qui al banchetto del consiglio di Agamennone, al quale partecipano tutti i principi e condottieri achei, la discussione continua proprio come Omero l’ha riportata. Nestore prende per primo la parola, loda il coraggio e la sagacia di Agamennone, ma gli dice in pratica che rubando ad Achille la schiava Briseide si è proprio fottuto da solo.

«O vecchio, hai esposto con schiettezza il mio errore» ammette onestamente Agamennone. «Ero impazzito. Impazzito e anche cieco, per offendere così Achille.»

Il grande re esita, ma nessuno, fra le decine di condottieri seduti intorno al fuoco centrale, si alza a contraddirlo.

«Mi sono lasciato accecare» riprende Agamennone «e non lo nego. Zeus ama quel giovane guerriero e perciò Achille vale un intero battaglione, no, un intero esercito!»

Nessuno discute il punto.

«E poiché sono stato reso cieco e folle dalla mia stessa ira, farò subito ammenda e pagherò un riscatto da re per riportare Achille nelle file degli achei.»

A questo punto i condottieri riuniti, Odisseo compreso, con la bocca piena di carne di bue e di pollo, borbottano parole d’assenso.

«Qui, davanti a voi tutti riuniti, elencherò gli splendidi doni per comprare l’amore del giovane Achille» grida Agamennone. «Sette tripodi non toccati dal fuoco, dieci talenti d’oro, venti lustri bacili di rame e dodici cavalli solidi e robusti, che già gareggiarono e riportarono per me premi nella corsa…»

E bla, bla, bla. Proprio come Omero scrisse. Proprio come ho detto prima. E, come ho detto prima, Agamennone promette solennemente di restituire Briseide, da lui mai toccata, nonché altre venti donne troiane (quando e se Ilio cadrà, ovviamente), e in più, come una sorta di pièce de résistance, una delle sue tre figlie a scelta, Crisotemi, Laodicea o Ifianassa (da scoliaste inveterato, noto qui l’errore ricorrente in storie precedenti e posteriori, in particolare l’assenza di Elettra e la possibile confusione del nome Ifigenia, ma tutto questo al momento non è importante) e infine, come dessert, aggiunge i "sette borghi popolosi".

E proprio come Omero ha riportato, offre questi doni en lieu delle scuse. «Tutto questo gli offrirò, se porrà fine alla sua ira» grida il figlio di Atreo ai suoi attenti condottieri. Il tuono romba e il fulmine balena, come se Zeus fosse impaziente. «Ma che Achille si sottometta a me! Solo Ade, il dio dei morti, è duro e irriducibile come questo parvenu. Che Achille lasci il posto e si inchini a me! Sono un re più potente di lui e anche più anziano. Sono, sostengo, il più grande!»

Be’, ecco le scuse…

Ora piove, una pioggerella continua striata dai fulmini di Zeus, e grida di ubriachi giungono dalle linee troiane a meno di cento metri, portate dal vento sopra il fossato pieno d’acqua e i bastioni fangosi. Aspetto che avvenga la scelta degli ambasciatori ad Achille, in modo da camminare sulla spiaggia in compagnia di Odisseo e di Aiace e di partecipare con loro all’ambasciata. Questa è la notte più importante della mia vita (be’, della mia seconda vita come scoliaste) e continuo a ripetere fra me e me ciò che dirò ad Achille.

"Se decidi di cambiare il nostro destino, devi trovare il fulcro."

Credo d’averlo trovato. Almeno, d’avere trovato un fulcro. Di sicuro niente sarà più lo stesso, per i greci e gli dèi e i troiani (e per me) se faccio ciò che ho in mente di compiere stanotte. Quando il vecchio Fenice parlerà, durante l’ambasciata, non solo farà terminare l’ira di Achille, ma lo farà unire a Ettore nella rivolta di greci e troiani contro gli dèi stessi.

Nestore a un tratto esclama: «Figlio di Atreo, generoso signore di uomini, Agamennone nostro, nessuno, neppure il nostro principe di uomini, figlio di Peleo, Achille, potrebbe disprezzare simili doni. Su, mandiamo una piccola ambasciata di uomini scelti con cura, che porti stanotte queste offerte e il nostro amore nella tenda di Achille. Via, quelli che designo con un’occhiata, obbediscano pronti!».

Rivestito del corpo del vecchio Fenice, mi sposto ai bordi del cerchio, accanto ad Aiace il Grande, per rendermi più visibile.

«Prima di tutti» continua Nestore «sia Aiace il Grande ad assumersi l’incarico. E il nostro brillante stratega e re, Odisseo, apporti il suo consiglio. Come araldi di scorta all’ambasceria vadano Odio ed Euribate. E ora portate acqua per le mani e ordinate il silenzio! Così invocheremo Zeus alla nostra maniera: che il sommo dio mostri pietà e induca Achille a sorridere alla nostra offerta!»

Rimango sorpreso e attonito, mentre si somministrano le abluzioni e i condottieri chinano la testa il silenziosa preghiera.