Nestore interrompe il silenzio per invitare l’ambasceria a muoversi (un’ambasceria di quattro persone, non di cinque!) e per gridare: «Ora mettetecela tutta! Convincetelo! Inducetelo ad avere pietà di noi, al nostro invincibile, spietato Achille!».
I due ambasciatori e i due araldi lasciano il cerchio di luce del fuoco e si allontanano sulla spiaggia.
"Non sono stato scelto!" penso. "Fenice non è stato scelto! Non è stato nemmeno nominato!" Omero si sbagliava! Gli eventi di questa Ilio si sono appena distaccati dagli eventi dell’Iliade e a un tratto sono cieco agli accadimenti futuri tanto quanto Elena e gli altri attori qui, cieco tanto quanto gli dèi lassù, cieco quanto Omero stesso, maledetti gli occhi che non aveva!
Barcollando sulle mie vecchie gambe rinsecchite (sulle vecchie gambe rinsecchite dell’inutile Fenice) mi faccio strada nel cerchio di capi greci e corro lungo il mare risonante per raggiungere Aiace e Odisseo.
Li raggiungo sulla spiaggia buia, a due terzi di strada dal campo di Achille. Aiace e Odisseo sono soli e parlano sottovoce mentre camminano sulla sabbia bagnata. Quando li raggiungo, si fermano.
«Cosa c’è, Fenice, figlio di Amintore?» chiede Aiace. «Ho visto che eri al banchetto del re e sono rimasto sorpreso, poiché corre voce che negli ultimi mesi tu sia rimasto vicino ai tuoi guaritori mirmidoni. Agamennone ti ha forse mandato a darci qualche ultimo consiglio?»
Ansimando come se avessi davvero gli anni di Fenice, dico: «Salve, nobile Aiace e regale Odisseo… In verità Agamennone mi ha mandato a unirmi a voi nell’ambasceria ad Achille».
Aiace pare perplesso, ma Odisseo è proprio insospettito. «Perché Agamennone avrebbe scelto proprio te per questo incarico, onorato anziano? Come mai ti trovavi nel campo di Agamennone, in questa notte pericolosa, quando al di là del fossato i troiani latrano come cani famelici?»
Non ho risposta per la seconda domanda, perciò cerco di bluffare nel rispondere alla prima. «Nestore ha suggerito che venga con voi per aiutarvi a interessare l’orecchio di Achille e Agamennone l’ha ritenuto un suggerimento saggio.»
«Vieni, allora» dice Aiace il Grande. «Vieni con noi, Fenice.»
«Ma non parlare se non te lo dico io» aggiunge Odisseo, guardandomi ancora con sospetto, come se fossi l’impostore che in realtà sono. «Forse Nestore e Agamennone hanno intuito qualche motivo perché tu venga nella tenda di Achille, ma non c’è ragione perché tu parli.»
«Ma…» comincio. Non so cosa dire. Se non ho il permesso di parlare dopo Odisseo e prima di Aiace, come ha narrato Omero, perdo tutta l’influenza, perdo il fulcro, fallisco. Se non parlo, gli eventi di questa notte divergeranno dall’Iliade. Mi rendo conto però che sono già diversi. Nestore avrebbe dovuto scegliere Fenice e Agamennone avrebbe dovuto approvarne la presenza nell’ambasceria. "Che cosa succederà, ora?" penso.
«Se vieni con noi alla tenda di Achille, vecchio Fenice» ammonisce Odisseo «devi restare nell’atrio insieme con gli araldi Odio ed Euribate ed entrare o parlare solo a un mio comando. Queste sono le mie condizioni.»
«Ma…» dico di nuovo e capisco quanto sia inutile ogni protesta. Se Odisseo si insospettisce maggiormente e mi rimanda al campo di Agamennone, il mio trucco va a farsi friggere e con esso l’intero piano di aizzare i mortali contro gli dèi. «Sì, Odisseo» dico, a capo chino come avrebbe fatto il vecchio domatore di cavalli e tutore di Achille. «Come tu comandi.»
Odisseo e Aiace riprendono il cammino lungo il mare risonante e io li seguo.
Ho già parlato della tenda di Achille e potreste averla immaginata come una sorta di tenda da campeggio, ma il figlio di Peleo sta in una struttura di tela che si avvicina in dimensioni al tendone di un circo viaggiante che ricordo dalla mia infanzia… da quello che "comincio a ricordare" della mia infanzia. Thomas Hockenberry, a quanto pare, ha avuto una vita: dopo quasi dieci anni qui, alcuni ricordi mi filtrano di nuovo nella mente.
Stanotte le centinaia di tende e di falò intorno alla grande tenda di Achille sono una scena caotica come il resto dell’accampamento acheo lungo più di un chilometro, con alcuni mirmidoni fedeli ad Achille che caricano le nere navi per la partenza, altri di vedetta sui bastioni per difendere la loro zona di spiaggia, se mai i troiani vi penetrassero prima dell’alba, e altri ancora raccolti intorno ai fuochi di campo, proprio come i condottieri di Agamennone.
Odio ed Euribate hanno annunciato il nostro arrivo ai capitani delle guardie e le guardie personali di Achille scattano sull’attenti e ci fanno entrare nel recinto interno. Lasciamo la spiaggia e risaliamo una bassa duna fino all’altura dov’è posta la tenda di Achille. Seguo i due achei: Aiace il Grande china la testa per varcare l’ingresso interno, più basso, mentre Odisseo, che arriva appena alla spalla del compagno, entra senza dover chinare la testa. Odisseo si gira e mi indica dove fermarmi, nell’atrio vicino all’ingresso. Se resto lì, vedo e ascolto ciò che accade dentro, ma non posso intervenire.
Achille, proprio come ha narrato Omero, è impegnato a suonare la lira e a declamare un epico canto di antichi eroi non molto diverso dall’Iliade stessa. La lira, lo so, è bottino di guerra, ottenuto quando Achille ha conquistato Tebe e ucciso il padre di Andromaca, Eezione. La moglie di Ettore è cresciuta ascoltando quello stesso strumento d’argento suonato nel focolare domestico della residenza reale. Ora Patroclo, il più caro amico di Achille, seduto di fronte a lui, aspetta che questi termini la sua parte per declamare i versi conclusivi.
Quando entrano Aiace e Odisseo, Achille smette di pizzicare la lira e si alza, sorpreso. Anche Patroclo si alza precipitosamente.
«Benvenuti!» esclama Achille. Rivolge un gesto a Patroclo. «Guarda, sono venuti due cari amici, i miei più cari in tutte le schiere degli achei, anche nell’ira lo riconosco. Dev’esserci un disperato bisogno di me, se sono qui.»
Fa accomodare i due emissari su bassi seggi, sui quali getta spessi tappeti color porpora. A Patroclo dice: «Su, figlio di Menezio, sistema qui un cratere più grande. Qui, mettilo qui. Mesceremo vino più forte. Una coppa per ciascuno dei miei nobili ospiti, poiché sotto il mio tetto ci sono gli amici che ho più cari».
Osservo lo svolgersi di questi rituali, sorprendentemente gentili, di eroica ospitalità. Patroclo sistema accanto al focolare un pesante tagliere e vi pone la lombata di una pecora e di una capra e il dorso, marezzato di grasso, di un maiale. Automedonte, amico e auriga sia di Achille sia di Patroclo, tiene fermi i pezzi di carne mentre Achille taglia le fette migliori, le cosparge di sale e le infila sugli spiedi. Patroclo ravviva il fuoco per un minuto, poi allarga i tizzoni, pone gli spiedi nella parte più calda del focolare e sala di nuovo la carne.
Mi accorgo d’essere affamato. Se mi chiamassero a parlare adesso (e se ne dipendesse il destino di tutti noi) non potrei profferire parola perché ho la bocca piena d’acquolina.
Come se avesse udito il brontolio del mio stomaco, Achille guarda fuori e quasi mi gela di sorpresa. «Fenice!» esclama. «Onorato mentore, nobile domatore di cavalli! Ti credevo ammalato e chiuso nella tenda, in queste ultime settimane. Entra, entra!»
Viene nell’atrio, mi abbraccia e mi guida nella parte centrale della tenda, illuminata dal fuoco, dove ora l’aria profuma di arrosto di maiale e di montone. Odisseo mi fulmina con lo sguardo e in silenzio mi ammonisce di tacere durante la discussione.
«Siedi, siedi, amato Fenice» dice Achille, un tempo allievo del vecchio. Però mi sistema su cuscini rossi, non porpora, e un po’ più distante dal fuoco rispetto a Odisseo e Aiace. Non rinnega le vecchie amicizie, ma rispetta il protocollo.
Patroclo porta cesti di giunco pieni di pane fresco; Achille toglie dagli spiedi la carne e mette su piatti di legno le fumanti porzioni. «Sacrifichiamo agli dèi, amici» declama, con un cenno a Patroclo che getta tra le fiamme le primizie, le fette di carne scelte come offerta votiva. «Ora mangiate» ordina quindi e tutti noi ci dedichiamo con impegno al pane, alla carne, al vino.