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Mentre mi gusto il cibo, corro con la mente: come troverò il modo di fare la dichiarazione che cambierà il destino dei presenti nella tenda e degli dèi stessi? Pareva semplicissimo, un’ora fa; ma Odisseo non ha bevuto la storia che Agamennone mi ha mandato come emissario. Nel poema Odisseo parla quasi subito, riferisce ad Achille l’offerta di Agamennone; Achille replica, in quello che ai miei allievi indicavo come il discorso più bello, più straordinario di tutta l’Iliade; poi Fenice si lancia in un lungo monologo in tre parti, all’inizio la sua storia personale, poi la parabola delle preghiere e alla fine un’allegoria della situazione di Achille, il mito di Meleagro, un paradeigma nel quale un mitico eroe aspetta troppo ad accettare i doni offerti e a combattere per i suoi amici. Tutto sommato, il discorso di Fenice è di gran lunga la più interessante petizione dei tre ambasciatori inviati a persuadere Achille. E, secondo l’Iliade, è proprio l’argomentazione di Fenice a convincere l’adirato Achille a infrangere il giuramento di ripartire l’indomani. Alla fine del discorso di Aiace, dopo il mio, Achille accetta di rimanere ancora un giorno per vedere che cosa faranno i troiani e, se necessario, proteggere da loro le sue navi.

Il mio piano consiste nel ripetere a memoria una parte del lungo discorso di Fenice e poi inserire il mio suggerimento. Ma vedo Odisseo farmi gli occhiacci dall’altra parte della tenda e capisco che non avrò la possibilità d’intervenire.

E se l’avessi? Ho riflettuto sul fatto che gli dèi terranno d’occhio questo pasto: in fin dei conti è uno dei passaggi chiave dell’Iliade, anche se forse il solo Zeus lo sa in anticipo. Ma anche senza saperlo in anticipo, di sicuro alcuni dèi e alcune dee osservano questa cena nelle loro videopiscine e nelle loro tavole di immagini. Zeus ha ordinato a tutti di non intervenire oggi e molti si adeguano al suo ultimatum, ma l’ordine divino dovrebbe accrescere la loro curiosità sull’ambasceria ad Achille. Se stanotte questi si lascia corrompere dai doni di Agamennone e dal potere di persuasione di Odisseo, allora l’offensiva di Ettore e forse perfino la volontà di Zeus stesso sono destinate al fallimento. Achille da solo vale un esercito.

Perciò se stanotte istigo all’eresia Achille, come ho progettato, se lo spingo alla guerra contro gli dèi, Zeus non interverrà subito a fulminare questa tenda con tutti i suoi occupanti? E anche se Zeus tratterrà la sua ira, posso benissimo immaginare Atena (o Era o Apollo o uno degli altri dèi interessati) scendere in picchiata a distruggere questo… "Fenice"… che ha suggerito una linea d’azione così contraria ai loro fini. Ho già considerato queste possibilità, naturalmente, e confido nel medaglione TQ e nell’Elmo di Ade per scamparla.

E se mi salvo di nuovo con la fuga, ma questi eroi finiscono uccisi o dissuasi dall’ira degli dèi? Non avrei cavato un ragno dal buco e la mia esistenza sarebbe rivelata a tutte le divinità. Allora l’Elmo di Ade e il medaglione TQ non mi sarebbero di alcun aiuto, gli dèi mi darebbero la caccia sino in capo al mondo, fino all’Indiana della preistoria, se necessario. E fine della storia, come si suol dire.

Forse Odisseo mi ha fatto un favore, non lasciandomi parlare.

Ma allora perché sono qui?

Dopo esserci satollati per bene, messi da parte i piatti e lasciate nei cesti solo le briciole, pronti per la terza coppa di vino, Aiace fa un piccolo cenno a Odisseo.

Il grande stratega coglie il segnale e alza la coppa per brindare ad Achille. «Salute, o Achille!»

Beviamo tutti e il giovane eroe china la bionda testa in segno di ringraziamento.

«Non manchiamo di niente in questo banchetto» continua Odisseo, con voce sorprendentemente bassa e calma, quasi melliflua. Di tutti i grandi condottieri achei, quest’uomo barbuto è quello che parla in modo più affabile e ambiguo. «Non manchiamo di niente tanto nel campo di Agamennone quanto qui nella casa del figlio di Peleo. Ma non è il pensiero di un copioso banchetto che abbiamo per la testa in questa notte tempestosa, no, è una ben grave sciagura, creata e voluta dagli dèi, che ci aspettiamo e temiamo stanotte.»

Odisseo continua, lentamente, pacatamente, senza mai affrettarsi, cercando di rado effetti retorici. Descrive la disfatta del pomeriggio, la vittoria dei troiani, il panico degli achei e la loro voglia di darsi alla fuga, la complicità di Zeus.

«Gli impudenti troiani e i loro presuntuosi alleati hanno rizzato le tende a un tiro di sasso dalle nostre navi, o Achille» dice Odisseo, come se Achille non l’avesse già saputo da Patroclo, da Automedonte e dagli altri suoi amici. O semplicemente non l’avesse visto dall’altura dove è posta la tenda.

«Ora niente può fermarli» continua Odisseo. «Così si vantano; e migliaia di falò, stanotte, uniscono alla vanteria la minaccia. Alle prime luci dell’alba i troiani intendono portare quei fuochi alle nostre navi e poi lanciarsi contro gli scafi anneriti dalle fiamme per massacrare i superstiti. E Zeus, figlio di Crono, manda loro segni d’incoraggiamento, fulmini che cadono sulla nostra ala sinistra, mentre Ettore infuria, ubriaco della sua stessa forza. Ettore non teme nessuno, o Achille, né uomo né dio. Oggi somiglia a un cane rabbioso e i demoni della katalepsis lo tengono nella loro stretta.»

Fa una pausa. Achille non apre bocca. Non mostra emozione. Patroclo continua a fissare in viso l’amico, ma Achille nemmeno guarda dalla sua parte. Sarebbe un magnifico giocatore di poker.

«Ettore non vede l’ora che spunti l’alba» riprende Odisseo, con voce anche più affabile, ora «perché alle prime luci minaccia di troncare le gallocce a poppa delle nostre navi, appiccarvi il fuoco che tutto consuma e, con i nostri compagni intrappolati contro gli scafi in fiamme, inseguire e uccidere noi achei fino all’ultimo uomo. Un incubo, o Achille: ho paura con tutto il cuore, ho paura che gli dèi diano a Ettore i mezzi per realizzare le minacce e che il nostro destino sia di morire qui nella piana di Ilio, lontano dalle colline di Argo dove pascolano i cavalli.»

Si ferma di nuovo e Achille tace. Le braci morenti scoppiettano. Da qualche parte, a varie tende di distanza, qualcuno suona sulla lira un lento canto funebre. Dalla direzione opposta giunge la risata da ubriaco di un guerriero che ovviamente si ritiene già condannato.

«Su, allora, Achille!» dice Odisseo, alzando finalmente la voce. «Su, in piedi con noi, anche se è l’undecima ora, se vuoi salvare dal massacro troiano i condannati figli degli achei.»

Ora chiede ad Achille di accantonare l’ira e riporta l’offerta di Agamennone, usando le stesse parole del re per descrivere i tripodi e la dozzina di cavalli da corsa e tutto il resto. Penso che la faccia un po’ troppo lunga sulla descrizione dell’intatta Briseide e delle fanciulle troiane in attesa d’essere stuprate e sulle tre belle figlie di Agamennone, ma termina con un’appassionata perorazione, ricordando ad Achille il consiglio del suo stesso padre, l’ammonimento di Peleo a dar valore all’amicizia, non alle liti.

«Ma se nel cuore alberghi tanto odio per il figlio di Atreo da non accettare quei doni» conclude Odisseo «abbi almeno compassione di tutti noi achei. Unisciti a noi nella battaglia e salvaci adesso e noi ti onoreremo come un dio. Ricorda inoltre che se l’ira ti trattiene dal combattere, se lo sdegno ti rimanda a casa sul mare scuro come vino prima che la guerra contro Troia sia finita, non saprai mai se saresti stato tanto abile da uccidere Ettore. Ecco l’occasione per questa tua aristeia, o Achille, poiché domani la frenesia omicida porterà Ettore al combattimento ravvicinato, dopo tutti gli anni in cui è rimasto in disparte dietro le alte mura di Troia. Resta e combatti con noi, nobile Achille, e ora, per la prima volta, in combattimento avrai di fronte Ettore.»