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Devo ammettere che il discorso di Odisseo è stato una recita di prim’ordine. Forse mi sarei lasciato persuadere, se fossi stato il giovane semidio sdraiato sui cuscini a due metri da me. Restiamo tutti in silenzio, finché Achille non posa la coppa di vino e replica.

«Nobile figlio di Laerte, seme di Zeus, stratega pieno di risorse, caro Odisseo, devo dire con franchezza e onestà cosa provo e come tutto ciò finirà, così non continuerete ad assillarmi, un’ambasciata dopo l’altra, con blandizie e toni dimessi, uno dopo l’altro, come una fila di tortore in amore.

«Tanto detesto la Morte, le buie porte dell’Ade, quanto detesto un uomo che con le labbra dice una cosa e nel cuore ne cela un’altra.»

A queste parole rimango sorpreso. È forse una frecciata a Odisseo, "stratega pieno di risorse", noto a tutti gli achei come un tipo che piegherebbe la verità, se servisse ai suoi scopi? Forse. Ma Odisseo non reagisce in alcun modo, così mantengo neutra l’espressione di Fenice.

«Parlerò con chiarezza» continua Achille. «Agamennone mi riconquisterà forse, mi persuaderà con tutti questi… doni?» Quasi sputa l’ultima parola. «No. Per niente al mondo. E neppure tutti gli eserciti e i condottieri degli achei potrebbero convincermi a tornare, perché la loro gratitudine è troppo misera e troppo tardiva. Dov’era questa riconocenza, durante gli anni e anni di battaglia contro i loro nemici, uno scontro dopo l’altro, giorni e giorni in corazza, combattendo ogni ora, senza che la fine fosse in vista?

«Dodici città ho assalito dalle mie navi; undici le ho conquistate, bagnando di sangue troiano il fertile suolo delle terre di Ilio. E da tutte quelle città ho portato via montagne di bottino e orde di belle fanciulle in lacrime; e sempre ho dato la parte migliore del bottino ad Agamennone, a quel "figlio di Atreo", al sicuro sulle veloci navi o rimpiattato ben dietro le linee. E lui tutto ha preso. Tutto e di più.

«Oh, sì, a volte ha dato le briciole a te e agli altri condottieri, ma ha sempre tenuto per sé la parte del leone. A tutti voi, della cui fedeltà ha bisogno per sostenere il suo regime, Agamennone dà. Solo a me prende! Compresa la schiava che sarebbe divenuta mia moglie. Bene, vaffanculo questa storia e vaffanculo lui e vaffanculo lei, miei cari compagni. Agamennone s’impali pure Briseide… fino all’elsa, se ancora ce la fa, quel vecchio.»

Esposte di nuovo le sue rimostranze, Achille continua e si chiede perché i suoi mirmidoni e gli achei e gli argivi dovrebbero combattere questa guerra. «Per Elena e i suoi sciolti e lucenti capelli?» chiede, sprezzante; dice che Menelao e suo fratello Agamennone non sono i soli a cui manca la moglie, ricorda a Odisseo che la sua stessa Penelope non vede il marito da dieci lunghi anni.

E io penso a Elena seduta nel suo letto, solo poche notti fa, i lucenti capelli sciolti sulle spalle, i candidi seni illuminati dal chiarore delle stelle.

È dura prestare attenzione ad Achille, anche se il suo discorso è splendido e stupefacente proprio come lo riporta Omero. Nel suo breve monologo, Achille scardina il codice eroico che fa di lui un supereroe, il codice etico che fa di lui un dio agli occhi dei suoi uomini e dei suoi pari.

Dice di non nutrire l’ambizione di battere il glorioso Ettore, di non volerlo uccidere né di voler morire per mano sua.

Dice che prenderà i suoi uomini e partirà all’alba, lasciando gli achei al loro destino, alla misericordia di Ettore, quando l’indomani i troiani attraverseranno il fossato e i bastioni.

Dice che Agamennone è un cane con una corazza d’ignominia, dice che non sposerebbe una sua figlia neanche se per portento la fanciulla avesse l’aspetto di Afrodite e le qualità di Atena.

Poi dice una cosa davvero stupefacente: sua madre, la dea Teti, gli ha rivelato che due destini si presenteranno a lui in questo giorno. Se resta qui, assedia Troia, uccide Ettore e poi muore nel giro di qualche giorno; in questo modo, ha detto Teti, avrà gloria eterna nel ricordo di uomini e dèi insieme. L’altro destino consiste nella fuga: salpare verso la patria, perdere l’orgoglio e la gloria, ma vivere una vita lunga e felice. La scelta spetta a lui, gli ha rivelato sua madre, anni prima.

Achille, ci dice ora, sceglie di vivere. Questo… questo… eroe, questa massa di muscoli e di testosterone, questo semidio e leggenda vivente preferisce la vita alla gloria. Odisseo lo guarda a occhi socchiusi, incredulo; Aiace resta a bocca aperta.

«Perciò, Odisseo, Aiace, tutt’e due fratelli per me, tornate dai grandi condottieri dell’Acaia» conclude Achille. «Riferite la mia risposta. Siano loro a escogitare il modo per salvare le concave navi e gli uomini che domani a quest’ora saranno spinti a ridosso degli scafi in fiamme. In quanto al qui presente e silenzioso Fenice…»

Si gira verso di me e io faccio un salto di un palmo sul tappeto. Ero talmente preso a preparare ciò che ho da dire, con tutte le sue implicazioni morali, da dimenticare che qui è in corso una discussione.

«Fenice» sorride con indulgenza Achille «mentre Odisseo e Aiace devono fare rapporto al loro "padrone", tu sei libero di passare qui la notte, con Patroclo e con me, e di imbarcarti con noi, giunta l’alba. Ma solo se ne hai voglia. Non costringerei mai nessuno a fuggire.»

Ecco l’occasione buona per parlare. Senza badare al cipiglio di Odisseo, mi guardo intorno, mi alzo con impaccio, mi schiarisco la voce e inizio il lungo discorso di Fenice. Come inizia? Dopo tanti anni di insegnamento e di studio, di apprendimento di tutte le sfumature di ogni parola greca… ora ho la mente vuota.

Aiace si alza. «Mentre questo vecchio sciocco cerca di decidere se fuggire o no, Achille, ti dico che sei tanto sciocco quanto il vecchio Fenice!»

Achille, quell’uccisore di uomini che non tollera nessun insulto alla propria persona, l’eroe che porterà al massacro tutti gli amici achei pur di non sopportare l’offesa di Agamennone a proposito di una schiava, si limita a sorridere e a inarcare il sopracciglio all’insulto diretto di Aiace.

«Rinunciare alla gloria e a venti bellissime fanciulle per una sola donna che non puoi nemmeno avere… bah!» esclama Aiace e si gira. «Vieni, Odisseo, questo ragazzo d’oro non ha mai bevuto al capezzolo dell’amicizia umana. Lasciamolo alla sua ira e portiamo il triste messaggio agli achei in attesa. L’alba di domani si avvicina in fretta e io almeno ho bisogno di qualche ora di sonno prima di combattere. Se morirò domani, voglio morire sveglio.»

Odisseo annuisce, si alza, annuisce di nuovo in direzione di Achille e segue Aiace il Grande fuori della tenda.

Sono ancora a bocca aperta, pronto a recitare la lunga orazione di Fenice — quell’ingegnosa orazione! — con i miei ingegnosi emendamenti e programmi nascosti.

Patroclo e Achille si alzano, si stiracchiano, si scambiano occhiate. È chiaro che s’aspettavano l’ambasciata e conoscevano in anticipo la sconvolgente risposta.

«Fenice, vecchio padre, amato dagli dèi» dice cordialmente Achille «non so che cosa realmente ti abbia portato qui in questa notte tempestosa, ma ben ricordo quando, bambino, mi prendevi in braccio e mi portavi a letto dopo la lezione. Resta qui stanotte, Fenice. Patroclo e Automedonte ti prepareranno un soffice letto. Domattina salperemo verso casa e tu potrai venire con noi o restare.»

Mi rivolge un cenno e passa nella zona letto in fondo alla tenda; rimango lì, come lo sciocco che sono, ammutolito in ogni senso, sbalordito per questa folle deviazione dalla trama dell’Iliade.

Achille deve essere convinto a restare, anche se non si unisce al combattimento, in modo che l’Iliade si dipani in questo modo, troiani ancora vincenti e greci in ritirata, con tutti i grandi condottieri feriti, Odisseo, Agamennone, Menelao, Diomede, tutti; allora Patroclo, provando compassione per i suoi amici e sapendo che Achille non scenderà in campo, indosserà l’armatura dorata di Achille e ricaccerà indietro i troiani finché, in singolar tenzone con Ettore, non sarà ucciso e il suo cadavere non sarà violato e profanato. La morte di Patroclo spingerà Achille a uscire dalla tenda, pieno d’ira omicida, e determinerà il fato di Ettore e di Ilio e di Andromaca e di Elena e di tutti noi.