Savi gli sparò ancora, quasi tranciandolo in due all’altezza della cintola. Il fluido interno, azzurro latteo, schizzò i muri e le pietre dal selciato. Ciò che restava del voynix cadde, si contrasse ancora un istante, rimase inerte.
Harman e Daeman si avvicinarono con prudenza, cercando di non calpestare il fluido azzurro e i pezzi della creatura. In due giorni era il secondo voynix che vedevano distruggere.
«Andiamo» disse Savi, togliendo dalla pistola il caricatore di dardi di cristallo e innestandone uno pieno. «Se qui attorno ce ne sono altri, siamo nei guai. Dobbiamo tornare al sonie. In fretta, anche.»
Savi li guidò per una stretta via, svoltò in un vicolo ancora più stretto, girò di nuovo in un passaggio più angusto di un vicolo, una fessura tra due edifici di pietra. Sbucarono in un cortile ampio e polveroso, passarono sotto un arco di pietra e si ritrovarono in un cortile più piccolo.
«Presto!» bisbigliò Savi. Li guidò su per una scalinata esterna, attraversò un tetto a terrazza con cumuli di polvere, salì una malferma scaletta di legno, passando davanti a finestre chiuse da scuri, fino a un tetto più in alto.
«Cosa facciamo?» bisbigliò Harman, mentre uscivano nella fredda aria della notte, in cima all’edificio. «Non dobbiamo tornare al sonie?»
«Lo chiamerò qui» disse Savi. Piegò il ginocchio, vicino al muricciolo del tetto, e attivò la funzione proxnet, schermando il bagliore sopra la mano. Harman si accoccolò accanto a lei.
Daeman rimase in piedi. Lassù l’aria era fresca, dopo il caldo delle vie acciottolate e degli stretti vicoli, e da quel punto, in cima alla collina, il panorama era interessante. Alla loro destra il raggio azzurro bagnava di livida luce le cupole e i tetti e le vie. Ormai era buio e si vedevano le stelle. Nella città non c’erano luci accese, ma le antiche cupole e le guglie e alcune arcate brillavano nel bagliore azzurro. Savi aveva detto che il recinto chiuso da mura sulla collina dove ardeva il raggio era chiamato Haram esh-Sharif, ossia Monte del Tempio, e i due edifici a cupola alla base della macchina del raggio erano la Cupola della Roccia e la moschea Al-Aqsa.
«Itbah al-Yahud!» Il grido improvviso, stridulo e amplificato, provenne dalle vie alle loro spalle. Fu ripetuto dal labirinto di stretti vicoli a ovest, fra loro e il sonie.
«Itbah al-Yahud!»
Savi alzò gli occhi dal display sulla palma della mano.
«Cos’è questo grido?» bisbigliò Harman, in tono stridulo. «I voynix non parlano.»
«No» disse Savi. «Proviene dagli antichi altoparlanti dei muezzin automatici per la chiamata alla preghiera in tutte le moschee.»
«Itbah al-Yahud!» La tremula, pressante voce echeggiò da tutte le parti nella città buia. «Al-jihad!» gridò la voce amplificata. «Itbah al-Yahud!»
«Maledizione!» imprecò Savi, guardando il display. «Non c’è da stupirsi se non risponde al telecomando.»
«Cosa?» Daeman si avvicinò e si accovacciò accanto a Harman e tutti e due guardarono il display rettangolare sospeso a qualche centimetro sulla mano aperta di Savi. Si vedeva la parte frontale del sonie, nel punto dove avevano toccato terra. I campi di sassi e la città cinta di mura brillavano di verde nella ripresa a bassa luminosità della telecamera. Più vicino, sopra l’obiettivo, decine di voynix giravano intorno al sonie, si gettavano contro la macchina, la colpivano con pietre, la coprivano di grossi sassi.
«Hanno annullato il campo di forza e rotto qualcosa» bisbigliò Savi. «Il sonie non verrà a prenderci.»
«Allahu akbar!» gridò da tutti i punti della città la stridula voce amplificata. «Itbah al-Yahud! Itbah al-Yahud!»
I tre si accostarono al bordo del tetto. Per un secondo Daeman pensò che gli edifici e il selciato delle vie e i muri di cinta dei cortili tremassero, si sbriciolassero, si dissolvessero nella luce azzurra riflessa; poi capì che sulle pietre, sulle cupole, sui muri, sui tetti strisciavano migliaia di creature, come un’invasione di scarafaggi che zampettavano furiosamente verso la luce azzurra. Allora si rese conto che i luccicanti e brulicanti edifici erano molto lontano, valutò la scala e capì che non si trattava di scarafaggi né di ragni zampettanti in corsa verso di loro, ma di voynix.
«Itbah al-Yahud!» urlava da ogni parte la voce metallica. Le parole echeggiavano contro il Monte senza perdere il tono di folle insistenza.
«Cosa significa?» chiese Daeman.
Savi guardava i voynix illuminati di azzurro zampettare più vicino sopra i tetti e nel labirinto di vie strette e sinuose. L’ondata di grandi sagome simili a insetti ormai distava meno di due isolati, tanto che si sentiva il raschiare di lame su pietre e tegole. Savi si girò lentamente. Parve più vecchia che mai, nella pulsante luce azzurra.
«Itbah al-Yahud!» ripeté piano. «"Uccidi l’ebreo".»
32
TENDA DI ACHILLE
Devo uccidere Patroclo.
Me ne rendo conto, come se avessi udito un bisbiglio nella notte, mentre me ne sto disteso nell’accampamento dei mirmidoni, nella tenda di Achille, avvolto nel guscio del corpo del vecchio Fenice.
Devo uccidere Patroclo.
Non ho mai ucciso nessuno. Cristo, da studente ho manifestato contro la guerra nel Vietnam, non ce l’ho fatta a mettere a dormire il cane di famiglia (toccò a mia moglie portarlo dal veterinario) e mi sono considerato un pacifista per gran parte della vita accademica. Non ho mai colpito nessuno, per l’amor di Dio!
Devo uccidere Patroclo.
È l’unico modo. Confidavo che la retorica (quella, modificata, del vecchio Fenice) avrebbe avuto successo, che avrebbe persuaso l’uccisore di uomini Achille a incontrarsi con Ettore e terminare la guerra, a seppellire l’ascia.
Già, seppellirla proprio nella mia fronte.
La decisione di Achille, la partenza e la scelta di una vita lunga e poco gloriosa, mi sconvolge profondamente come scoliaste (sconvolgerebbe ogni studioso dell’Iliade) ma è ragionevole. Achille ritiene ancora che l’onore sia più importante della vita; ma dopo gli insulti di Agamennone, non vede alcun onore nell’uccidere Ettore e poi essere ucciso a sua volta. Odisseo, quel retore senza pari, è stato eloquente nello spiegare e nell’evocare che gli achei viventi e le innumerevoli generazioni a venire avrebbero onorato la memoria di Achille, ma del loro onore Achille se ne frega. Qui conta solo il suo senso dell’onore e ora lui non vede alcun onore nell’uccidere i nemici di Agamennone e nel morire per gli obiettivi di Agamennone e di Menelao. Solo l’onore di Achille importa e Achille preferirebbe salpare verso casa fra qualche ora e vivere la vita di un comune mortale, rinunciando all’occasione di far parte di questa banda di fratelli, venti secoli prima del principe Hal e di Agincourt, anziché mettere a rischio altro onore qui nell’insanguinata piana di Ilio.
Ora lo capisco. Perché non l’ho capito prima? Se Odisseo (Odisseo dai modi suadenti e dalla lingua melata) non poteva convincere Achille a combattere, che cosa mi ha indotto a credere che ci sarei riuscito io? Sono stato uno stolto. Omero non è senza colpa, ma sono stato uno stolto ugualmente.
Devo uccidere Patroclo.
Poco dopo la partenza di Odisseo e di Aiace il Grande, appena torce e fuochi nei tripodi sono stati spenti nella stanza principale della tenda, sento entrare due giovani schiave per il piacere di Achille e di Patroclo. Non ho mai visto nessuna delle due, ma ne conosco il nome: Omero non lascia nessuno senza nome, nell’Iliade. L’amichetta di Achille (non avrei potuto usare questa parola, insegnando all’università dell’Indiana, nell’altra mia vita, perché la polizia del politicamente corretto mi avrebbe fatto saltare l’impiego, ma qui non pare appropriato chiamare "donne" quei ridacchianti giocattoli sessuali) è Diomeda, figlia di Forbante, dell’isola di Lesbo… ma non lesbica. La pollastra di Patroclo si chiama Ifide. M’è venuto da ridere, quando le ho scorte per un attimo fra le pieghe della tenda d’ingresso: Achille, che è alto, biondo, statuario, dai muscoli cesellati, preferiva la piccola, robusta e bruna Diomeda dai grossi seni; Patroclo, che è molto più basso di Achille e scuro di capelli, aveva scelto l’alta, bionda, snella Ifide dal piccolo seno. Per una mezz’ora sento le risate delle due donne, la salace conversazione dei due uomini e poi i gemiti e i sospiri di tutt’e quattro nella camera da letto di Achille. Ovviamente l’eroe e il suo amico non hanno scrupoli a fare sesso nella stessa stanza, addirittura commentando la prestazione, e ciò mi fa pensare ad agenti immobiliari di Bloomington, Indiana, o a fratelli di loggia nella metropoli per il fine settimana, più che ai nobili guerrieri di questa età eroica. Barbara.