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«Aiuto!» Il fulmine cadde a poco più di un chilometro e il tuono mosse la cima delle piante come un’onda d’urto. Daeman batté le palpebre per eliminare le immagini residue del lampo e notò che il granturco pareva meno fitto, più avanti sulla sua destra. Era di sicuro il limitare del campo, pensò.

Corse per l’ultima quindicina di file e sbucò all’aperto.

Non era il punto da dove era entrato nel campo, ma una radura, larga forse sei metri e lunga dieci. Al centro, due metri più alta del granturco, c’era una grande croce metallica. Daeman spostò il raggio della torcia e la illuminò dalla base alla cima.

La figura non era inchiodata sulla croce metallica, pareva invece annidata nella sommità, in una incavatura della croce stessa: il tronco nudo incuneato nell’asta verticale, le braccia estese sulla traversa orizzontale. Il raggio della torcia tremolava nel diluvio, mentre Daeman fissava la figura.

Non era un uomo… almeno, non un uomo come quelli che Daeman aveva già visto. Era una creatura umanoide, nuda e lucida, squamosa e verdastra… non il verde di un pesce, ma quel verde che Daeman aveva sempre immaginato come il colore dei cadaveri, prima che lo spedale ponesse fine a simile barbarie. Le squame, piccole e numerose, luccicavano alla luce della torcia. La creatura era muscolosa, ma i muscoli erano "sbagliati": braccia troppo lunghe, avambracci troppo smilzi, polsi troppo robusti, nocche esageratamente larghe, artigli gialli al posto di unghie, fianchi troppo grossi, piedi con tre sole dita assai distanziate. Era un maschio (il pene e lo scroto erano oscenamente visibili, di un rosa sgargiante sotto lo stomaco corrugato e l’addome muscoloso, anch’essi sbagliati, tanto da far pensare a una tartaruga o uno squalo con genitali quasi umani) ma il grosso torace, il collo da serpente e la testa glabra erano le parti d’aspetto meno umano. La pioggia correva lungo muscoli, squame, fasci di legamenti e gocciolava sul ruvido metallo nero della croce.

Gli occhi erano infossati sotto arcate simili a quelle delle scimmie e dei pesci insieme; dal viso sporgeva, più che un naso, un grugno o una sorta di branchia. Sotto il grugno, la bocca era socchiusa. Daeman fissò i lunghi denti ingialliti, non umani, non animali, più da pesce, se i pesci fossero mostri, e la lingua bluastra, fin troppo lunga, che si mosse sotto il suo sguardo. Si affrettò a spostare più in alto il raggio della torcia e quasi gridò di nuovo.

La creatura aveva aperto gli occhi: occhi oblunghi, gialli, da gatto, senza l’espressione di freddo rapporto tra i gatti e la razza umana, con minuscole fessure nere al centro. La creatura (come l’aveva chiamata, Savi? Un calibani?) si mosse nell’incavo della croce, aprì le mani strette a pugno e allargò le dita munite di lunghi artigli che riflettevano la luce; spostò un poco le gambe e il tronco, come se si fosse svegliata e si stiracchiasse.

Niente la teneva legata. Niente le impediva di balzare su Daeman in quell’istante stesso.

Daeman cercò di correre via, ma non trovava il coraggio di girare la schiena alla creatura, che si mosse di nuovo, staccò dalla croce la mano destra e gran parte del braccio. I piedi, vide ora Daeman, avevano artigli gialli in punta a sporgenze simili a pinne.

Udì alle sue spalle uno schianto e un rombo (altri calibani già staccatisi dalla croce, di sicuro) e si girò di scatto per affrontare la loro carica, alzando la torcia come un bastone e restando al buio.

Scivolò (o gli cedettero le gambe) e cadde sulle ginocchia, nel fango della radura. Sentì le lacrime agli occhi, ma non credette di averle versate, nei due o tre secondi prima che il crawler sbucasse dalla fila di piante e si stagliasse come un ragno mostruoso che incombeva su lui stesso e sul campo di granturco e sulla croce e sull’immobile calibani. Gli otto fari del crawler si accesero e Daeman rimase accecato. Col braccio si coprì il viso, ma (capì dopo) più per nascondere le lacrime che per schermarsi gli occhi.

Indossata la termotuta, i tre (Harman e Daeman distesi nelle poltroncine di cuoio screpolato, la vecchia Savi sdraiata alla base della sfera di vetro) mangiarono le tavolette nutritive, si passarono la bottiglia d’acqua e per un poco guardarono in silenzio la tempesta. Daeman aveva chiesto a Savi di allontanarsi dal campo di granturco e dalla croce e da quella creatura, così la vecchia aveva percorso un paio di chilometri di strada, si era fermata e aveva spento tutto, tranne il campo di forza del crawler e i pannelli virtuali che emettevano una fioca luce.

«Cos’era quello?» chiese alla fine Daeman.

«Uno dei calibani» rispose Savi. Pareva comoda, sdraiata contro la parete di vetro, con lo zaino sotto la testa.

«So come li chiami» sbottò Daeman. «Ma che cosa sono?»

Savi sospirò. «Se comincio a spiegare una cosa, poi devo spiegare anche il resto. Ci sono un mucchio di cose che voi eloi non sapete. Quasi tutto, in pratica, a dire il vero.»

«Perché non cominci a spiegare perché ci chiami eloi?» disse Harman. Il suo tono era duro.

«Immagino che all’inizio fosse una sorte d’insulto» disse Savi. Un lampo le illuminò i tratti del viso, ma la tempesta si era spostata abbastanza e il tuono tardò a giungere, da molto lontano. «Per essere onesti, chiamavo così il mio popolo, prima di usare questa parola anche per indicare il vostro.»

«Cosa significa?» chiese Harman.

«È un termine presente in una vecchissima storia in un vecchissimo libro. Su un uomo che viaggia nel tempo fino al lontano futuro e trova che la specie umana si è evoluta in due razze, una mite, pigra, senza scopi, che si crogiola al sole, gli eloi; e l’altra, brutta, mostruosa, produttiva, tecnologica, che però si nasconde in grotte e nel buio, i morlock. Nel libro i morlock forniscono cibo, riparo e vesti agli eloi, finché quella gente mite non è ingrassata per bene. Allora i morlock se li mangiano.»

Il lampo balenò di nuovo sui campi, ma era sbiadito, sempre meno vivido. «È così il nostro mondo?» chiese Daeman. «Noi siamo gli eloi mentre i calibani e i voynix sono i morlock? Ci mangiano?»

«Magari fosse così semplice» disse Savi. Rise piano, senza allegria.

«Chi sono i calibani?» chiese Harman.

Anziché rispondere, la vecchia disse: «Daeman, mostra a Harman uno dei tuoi trucchi con la palma della mano».

Daeman esitò. «Quale?» chiese. «Proxnet o farnet?»

«Sappiamo già dove ci troviamo, tesoruccio» disse ironicamente la vecchia. «Mostragli farnet.»

Daeman la guardò storto, ma obbedì. Disse a Harman di pensare tre quadrati blu al centro di tre cerchi rossi e all’improvviso un ovale azzurro si librò sulla palma di tutt’e due. «Pensa a una persona» disse Daeman, sentendosi strano. Prima d’ora non aveva mai insegnato niente a nessuno, a parte qualche tecnica sessuale. «Una qualsiasi» soggiunse. «Basta visualizzarla nella mente.»

Harman parve dubbioso, ma concentrato. Nel suo ovale comparve una veduta aerea di villa Ardis, poi il diagramma della disposizione delle sale. Nella veranda anteriore della villa c’era una figura femminile, stilizzata, in compagnia di un gruppo di uomini e donne, anch’essi stilizzati.

«Ada» disse Daeman. «Pensavi a Ada.»

«Incredibile» esclamò Harman. Fissò per un momento l’immagine. «Ora visualizzo Odisseo.»

L’immagine mutò, cambiò grandezza, cercò, ma non tirò fuori niente.

«Farnet non ha la chiave per individuare Odisseo, secondo Savi» disse Daeman. «Ma torna a Ada. Guarda dov’è.»

Harman corrugò la fronte, ma si concentrò. La figura stilizzata di Ada era in un campo a cento metri, più o meno, dietro villa Ardis. C’erano decine di altre figure, sedute davanti e intorno a uno spazio vuoto. Ada si unì alla folla.

Daeman guardò l’immagine sulla palma di Harman. «Chissà che cosa succede laggiù. Se quello spazio vuoto rappresenta Odisseo, sembrerebbe che il vecchio barbaro stia tenendo un discorso alla folla.»