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Aggrappato a due mani al sottile parapetto, scruto al di là della cima montana. Lo spettacolo mozza il fiato.

Siamo abbastanza in alto da vedere la curvatura del mondo. A nordovest il grande oceano blu si estende fino alla cuspide rovesciata dell’orizzonte. A nordest corre la linea costiera e immagino di vedere, anche da questa distanza, le grandi teste di pietra che segnano il confine tra il mare e la terraferma. Verso nord c’è la falce dell’arcipelago senza nome appena visibile dalla costa, alcuni chilometri dai nostri dormitori, poi nient’altro che blu fino al polo. A sudest scorgo altre tre cime di alte montagne che sporgono all’orizzonte, più basse di Olimpo ma, senza il clima controllato di quest’ultimo, bianche di neve. Una di esse è di sicuro il monte Elicona, casa della mia Musa e delle sue sorelle, se sorelle ha. A sud e a sudovest, per centinaia di chilometri, scorgo una serie di campi coltivati, poi selvagge foreste, più in là il deserto rossastro, poi forse ancora foreste, finché la terra non si confonde con le nubi e la foschia e io, per quanto batta le palpebre e mi stropicci gli occhi, non distinguo altri particolari.

La Musa fa compiere al cocchio una virata e scende verso la riva ovest del lago della caldera. Vedo ora che i puntini bianchi notati sorvolando il lago sono enormi edifici con la facciata a colonne e gradini, muniti di giganteschi frontoni e decorati di statue. Sono sicuro che nessuno scoliaste ha mai visto questa parte di Olimpo o, se l’ha vista, non è vissuto tanto a lungo da parlarcene.

Scendiamo nei pressi dell’edificio più grande; il cocchio tocca terra e i cavalli olografici scompaiono. Varie altre centinaia di cocchi celesti sono parcheggiati alla rinfusa sull’erba.

La Musa estrae dalla veste quello che pare un piccolo medaglione. «Hockenberry, ho ricevuto l’ordine di portarti in un luogo dove la tua presenza non è ammessa. Uno degli dèi mi ha ordinato di darti due oggetti che potrebbero evitarti di finire schiacciato come un moscerino se ci si accorgesse di te. Mettiteli addosso.»

La Musa mi porge i due oggetti: un medaglione con catenella e una sorta di cappuccio di cuoio lavorato. Il medaglione è piccolo, ma pesante, come se fosse d’oro. La Musa si sporge e fa girare in senso antiorario una parte del disco. «Questo è un teleporter quantico personale, come quelli usati dagli dèi» dice piano. «Puoi telequantarti in ogni luogo che riesci a visualizzare nella tua mente. Questo particolare disco TQ ti permette anche di seguire la pista quantica degli dèi che cambiano fase nello spazio di Planck, ma nessuno, tranne il dio che mi ha dato questo disco, può rintracciare la tua pista. Capisci?»

«Sì» rispondo, con voce quasi tremante. Non dovrei avere un congegno del genere: sarebbe la mia morte. L’altro "dono" è ancora peggio.

«Questo è l’Elmo del dio della morte» dice la Musa. Mi infila in testa l’elaborato copricapo, ma lo lascia ripiegato intorno al collo come una sciarpa. «L’Elmo di Ade fu fatto dal dio stesso. È l’unica cosa dell’universo che può nasconderti alla vista degli dèi.»

Batto le palpebre come uno sciocco. Ricordo vagamente, nelle note a piè di pagina, la citazione dell’Elmo di Ade e ricordo che il nome Ade (in greco, Aides, con accento e spirito aspro sulla "a") si riteneva significasse "l’invisibile". Ma per quanto ne so, l’Elmo di Ade è citato solo una volta da Omero, quando Atena lo indossa per rendersi invisibile al dio della guerra, Ares. "Perché mai" penso "gli dèi lo presterebbero a me? Cosa vogliono che faccia per loro?" Mi sento mancare le ginocchia.

«Indossa l’elmo» ordina la Musa.

Con gesti impacciati mi tiro sulla testa il copricapo. Nel cuoio sono incastonati dei congegni, chip di circuiti, nanotecnologie. L’elmo ha occhiali flessibili trasparenti e rete a maglia fitta sulla bocca; appena lo indosso, l’aria intorno a noi pare incresparsi bizzarramente, anche se per il resto la mia vista non ne risente.

«Incredibile» dice la Musa. Fissa direttamente oltre me. Mi rendo conto d’avere raggiunto l’aspirazione di ogni adolescente, sono davvero invisibile, anche se non so come faccia l’elmo a schermare alla vista tutto il corpo. Provo l’impulso di scappare via come un pazzo e di nascondermi alla Musa e a tutti gli dèi. Lo soffoco. C’è di sicuro un inghippo. Nessun dio o dea, neppure la mia poco importante Musa, darebbero a un semplice scoliaste un simile potere senza avere preso precauzioni.

«Questo congegno ti nasconderà alla vista di tutti gli dèi tranne a quella che mi ha autorizzato a dartelo» dice piano la Musa, fissando lo spazio vuoto a destra della mia testa. «Ma quella dea può vederti e rintracciarti dovunque, Hockenberry. E anche se il medaglione soffoca il suono, l’odore e perfino il battito cardiaco, i sensi degli dèi trascendono la tua comprensione. Sta’ vicino a me, nei prossimi minuti. Cammina con passo leggero. Non fare parola. Respira più piano che puoi. Se ti scoprono, né io né la tua patrona possiamo proteggerti dalla collera di Zeus.»

"Come si fa a respirare piano quando si è terrorizzati?" mi chiedo. Ma annuisco, dimenticando che la Musa ora non mi può vedere. Poiché aspetta, continuando a guardare l’aria a breve distanza dalla mia testa come se mi cercasse con la sua vista divina, borbotto: «Sì, o dea».

«Prendimi per il braccio» ordina lei, brusca. «Stai vicino a me. Non perdere contatto. Se lo perdi, sarai distrutto.»

Le poso sul braccio la mano, come una timida giovinetta scortata al ballo di debutto in società. La pelle della mia Musa è fredda.

Una volta visitai il capannone di montaggio dei veicoli spaziali, al Kennedy Space Center di Cape Canaveral. La guida disse che certe volte si formavano nubi sotto il tetto, centinaia di metri sopra il pavimento. Se quel capannone fosse stato sistemato in un angolo dell’immensa sala dove ci troviamo adesso, nessuno avrebbe notato che era lì, come non si noterebbe un cubo da costruzioni buttato via da un bambino in una cattedrale.

Quando si parla di dèi, si pensa ai più importanti, agli dèi fondamentali (Zeus, Era, Apollo e qualche altro), ma qui ce ne sono centinaia e la sala è quasi vuota. Sopra di noi, a una distanza che parrebbe di chilometri, una cupola d’oro (i greci non avevano scoperto come edificare le cupole, perciò questo era in contrasto con l’architettura classica tradizionale di altre grandi costruzioni che ho visto su Olimpo) dirige acusticamente la conversazione in tutti gli angoli dello strabiliante edificio.

Il pavimento pare d’oro battuto. Divinità appoggiate alla ringhiera guardano giù da balconate poste tutt’intorno. Le pareti mostrano dovunque centinaia e centinaia di nicchie ad arco, ciascuna con una statua di marmo bianco. Le statue sono degli dèi qui presenti.

Ologrammi di achei e di troiani guizzano qua e là, molti mostrano immagini tridimensionali, a grandezza e colori naturali, di uomini e donne che discutono o pranzano o fanno l’amore o dormono. Quasi al centro della sala, il pavimento d’oro digrada fino a una cavità più grande di qualsiasi combinazione di piscine olimpiche e in quello spazio guizzano a mezz’aria altre immagini di Ilio in tempo reale: ampie vedute aeree, primi piani, inquadrature multiple. Si sentono i dialoghi, come se greci e troiani fossero in questa stessa sala. Intorno a questa videopiscina, seduti su troni di pietra, sdraiati su morbidi divani o in piedi, con toghe da fumetti, ci sono gli dèi. Gli dèi importanti. Gli dèi fondamentali, noti anche agli alunni.