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«Silenzio!» sibila Elena. «Parleremo quando Teanò avrà teso intorno a noi uno schermo di sicurezza in modo che neanche gli dèi ci possano ascoltare.»

Prima di entrare nel tempio, Teanò estrae una veste nera e insiste perché io la indossi. Ora sembriamo tutte donne in veste lunga che entrano nel tempio da una porta secondaria e percorrono corridoi vuoti, anche se una delle sei calza sandali da guerra.

Non sono mai entrato in un tempio e non rimango deluso dalla rapida occhiata alla sala principale, grazie alla porta aperta. L’ambiente è enorme, quasi tutto buio per la scarsa luce proveniente da bracieri appesi e da candele votive. Mi ricorda, anche per l’odore, una chiesa cattolica: profumo d’incenso in un ambiente cavernoso dove anche gli echi sono in sordina. Tuttavia, anziché da un altare cattolico e statue di Maria vergine e del Bambino, questo ambiente è dominato da un’enorme statua di Atena posta al centro: alta almeno nove metri, scolpita in pietra bianca ma vistosamente dipinta, con labbra rosse, guance arrossate, pelle rosea (gli occhi della dea, grigi, sembrano fatti di pietra madreperlacea), brandisce un elaborato scudo d’oro massiccio, indossa una corazza di rame tirato a lucido, con intarsi d’oro, e una fascia di lapislazzuli, impugna una lancia di vero bronzo lunga dodici metri. È impressionante. Mi fermo davanti alla porta e ammiro il santuario. Lì, proprio ai sacri piedi calzati di sandali di Atena, Aiace il Grande afferrerà e stuprerà Cassandra, figlia di Priamo.

Elena torna indietro, mi prende per il braccio e mi tira senza tanti complimenti nel corridoio. Mi chiedo se sono il primo uomo ad avere mai visto il cuore del santuario del tempio di Atena a Ilio. La statua del Palladio e l’edificio stesso non sono sorvegliati da giovani vergini? Alzo gli occhi, vedo lo sguardo minaccioso della sacerdotessa Teanò e mi affretto a raggiungere le altre. Teanò non è vergine, è la fiera moglie di Antenore e un pezzo d’acciaio temprato con cui fare i conti.

Seguo le donne giù per una scala in penombra fino a un largo piano interrato, dove qualche candela fa luce. Teanò si guarda intorno, scosta un arazzo, da una tasca della veste prende una chiave di forma bizzarra e la infila nella parete che pare solida muratura: una lastra gira sui cardini e rivela una scala più ripida illuminata da torce. Teanò ci fa entrare frettolosamente.

Un corridoio conduce a quattro stanze in quello scantinato sotto lo scantinato. Mi spingono nell’ultima stanza, un locale piccolo, secondo gli standard del tempio, poco più di sei metri per sei, arredato solo con un tavolo di legno al centro, quattro tripodi accesi (appena un bagliore) agli angoli e una statua di Atena, più rozza e più piccola di quella nel salone centrale. Questa Atena è alta poco più di un metro.

«Questo è il vero Palladio, Hock-en-bear-eeee» mormora Elena, riferendosi alla scultura sacra ricavata da una pietra caduta dal cielo come segno tangibile della benedizione di Atena sulla città di Ilio. Quando il Palladio sarà rubato, così dice una storia vecchia di secoli, Troia cadrà.

Teanò ed Ecuba zittiscono con un’occhiata Elena. La mia ex amante… be’, la mia ex amica di una sola notte… riversa sul tavolo il contenuto della borsa; ci sediamo su sgabelli di legno e guardiamo l’Elmo di Ade, il bracciale morfico, lo storditore e il medaglione TQ. Solo il medaglione dà l’idea d’avere un certo valore. Il resto non lo guarderei nemmeno, a una vendita di roba vecchia.

Ecuba si rivolge a Elena. «Di’ a questo… uomo… che dobbiamo verificare la sua storia. Se questi giocattoli hanno potere.» La madre di Ettore e di Paride prende il bracciale morfico.

So che non può attivarlo, ma dico ugualmente: «Il suo potere è quasi esaurito. Non giocarci».

La vecchia mi fulmina con un’occhiata rovente. Laodice prende lo storditore e lo rigira fra le mani. «Questa è l’arma che hai usato per stordire Patroclo?» chiede. È la prima volta che parla in mia presenza.

«Sì» rispondo.

«Come funziona?»

Le indico i tre pulsanti da premere e girare per attivarlo. Sono certo che lo storditore è fatto in modo da funzionare solo se lo tengo io. Di sicuro gli dèi non sono così sciocchi da permettere che altri usino l’arma, se la perdessi, anche se la duplice pressione e il pulsante da girare sono una sorta di meccanismo di sicurezza. Comincio a spiegare a Laodice e alle altre che solo io posso usare gli utensili degli dèi.

Laodice mi punta al petto lo storditore e preme i pulsanti.

Una volta, in un’escursione con Susan nella Brown County, Indiana, mentre attraversavamo un prato in cima a una collina, un fulmine cadde a dieci passi da me, mi sbatté lungo e disteso, mi accecò e mi lasciò stordito per diversi minuti. Solevamo scherzare sull’episodio, sulle probabilità che si verificasse, ma al ricordo di quella scarica mi si seccava la bocca.

Questa scarica è peggiore.

Ho l’impressione che mi abbiano colpito con un attizzatoio rovente in pieno petto. Volo dallo sgabello, atterro tramortito sul pavimento di pietra, mi contorco come un epilettico, agito violentemente gambe e braccia e perdo conoscenza.

Quando rinvengo, dolorante, con un ronzio nelle orecchie e il mal di testa, le quattro donne non badano a me ma fissano un angolo vuoto.

"Quattro donne?" penso. Mi pareva fossero cinque. Mi alzo a sedere e scuoto la testa, nel tentativo di rimettere a fuoco la vista. "Manca Andromaca" noto. Forse è andata a chiedere aiuto, a trovare un guaritore. La moglie di Ettore si toglie l’Elmo di Ade.

«L’Elmo del dio della morte funziona, proprio come sostiene la tradizione» dice Andromaca. «Perché gli dèi avrebbero dovuto darlo a uno come lui?» Fa un cenno verso di me e lascia cadere sul tavolo l’elmo metallico.

Teanò prende in mano il medaglione TQ. «Questo non riusciamo a farlo funzionare» dice. «Facci vedere.»

Impiego un secondo, confuso come sono, a capire che la sacerdotessa si è rivolta a me. «Perché dovrei?» replico. Mi tiro in piedi e mi appoggio al tavolo. «Perché dovrei aiutare una di voi?»

Elena gira intorno al tavolo e mi posa sul braccio la mano. Ritraggo il braccio.

«Hock-en-bear-eeee» dice Elena, facendo le fusa come una gatta. «Non sai che gli dèi ti hanno mandato a noi?»

«Di cosa parli?» ribatto. Mi guardo intorno.

«No, qui gli dèi non possono udirci» rivela Elena. «Le pareti della stanza sono rivestite di piombo. Gli dèi non possono penetrarlo, né con la vista né con l’udito. È risaputo da secoli.»

Mi guardo intorno, a occhi socchiusi. Che diavolo. Perché no? Anche la vista a raggi X di Superman non penetrava il piombo. Ma perché nel tempio di Atena dovrebbe esserci una stanza a prova di dèi?

Andromaca si avvicina. «Amico di Elena, Hock-en-bear-eeee, noi… le donne di Troia ed Elena… per anni abbiamo tramato per porre fine alla guerra. Ma gli uomini… Achille, gli argivi, gli stessi nostri mariti e padri troiani… hanno potere su di noi. Rispondono solo agli dèi. Ora gli dèi hanno ascoltato le nostre più segrete preghiere e ti hanno mandato come nostro strumento. Con i nostri piani e il tuo aiuto cambieremo il corso degli eventi, salveremo non solo la nostra città, la nostra vita e quella dei nostri figli, ma anche il destino della razza umana, liberandoci dal dominio di divinità arbitrarie e crudeli.»

Scuoto di nuovo la testa e rido. «Nella tua logica c’è una piccola pecca, signora mia. Perché gli dèi avrebbero mandato me come vostro strumento, se vi proponete di rovesciarli? Non ha senso, donna.»

Le cinque troiane mi fissano per qualche momento. Poi Elena dice: «Ci sono più dèi, Hock-en-bear-eeee, di quanti non ne sogni la tua filosofia».