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Dèi di minore importanza si scostano, mentre la Musa si avvicina alla piscina centrale e io allungo il passo per starle accanto, con l’invisibile mano tremante sul suo braccio dorato, cercando di non far cigolare i sandali, di non inciampare, di non starnutire, di non respirare rumorosamente. A quanto pare, nessun dio o dea mi nota. Sospetto che me ne accorgerei subito, se uno di loro mi scorgesse.

A pochi metri da Pallade Atena, la Musa si ferma. Le sto così vicino da sentirmi come un bimbetto attaccato alle sottane della madre.

È in corso una furiosa discussione, mentre Ebe, una delle divinità minori, passa da uno all’altro e versa nelle coppe d’oro una sorta di nettare dorato. Zeus siede sul trono e a me basta un’occhiata per capire che qui è il re, l’adunatore dei nembi, dio fra gli dèi. Non un’immagine da fumetti, questo Zeus, ma una realtà di statura incredibile, il cui quasi palpabile portamento regale, barba e unguenti e tutto, mi tramuta il sangue in acqua.

«Come possiamo controllare l’andamento di questa guerra?» chiede a tutti gli dèi, mentre con lo sguardo trafigge Era, sua moglie. «O il fato di Elena? Se dee come Era di Argo e Atena, protettrice dei suoi soldati, continuano a intervenire… come in questo caso, a bloccare la mano d’Achille nell’atto di spargere il sangue del figlio di Atreo?»

Volge lo sguardo tempestoso su una dea sdraiata su cuscini viola. «Oppure tu, Afrodite, con le tue continue risate, sempre a fianco di quel belloccio di Paride per allontanare da lui influssi malefici e lance ben indirizzate. Come può la volontà degli dèi — e, cosa più importante, la volontà di Zeus — essere chiara, anche qui, se voi dee impiccione continuate a proteggere i vostri beniamini a spese del Fato? Malgrado tutte le tue macchinazioni, Era, Menelao può ancora riportare a casa Elena… o forse, chissà, Ilio può prevalere. Sono decisioni che non spettano a un paio di divinità femminili.»

Era incrocia le snelle braccia. Così di frequente nel poema si parla di Era come della "dea dalle bianche braccia" che quasi m’aspetto che le sue siano più bianche di quelle delle altre dee; ma per quanto la pelle di Era sia abbastanza lattea, non è poi diversa da quella di Afrodite o della sua stessa figlia Ebe o di una qualsiasi delle altre dee che vedo dal mio punto d’osservazione accanto alla videopiscina… fatta eccezione per Atena, cioè, che pare curiosamente abbronzata. So che questi passaggi descrittivi sono una funzione della poesia epica tipica di Omero; Achille è definito varie volte "piè veloce", Apollo è "colui che colpisce da lontano" e il nome di Agamennone è solitamente seguito da "dall’ampio potere" o da "reggitore di popoli"; gli achei sono "dai buoni schinieri" e le loro navi sono "nere" o "concave" e così via. Questi epiteti ripetuti soddisfano le dure esigenze degli esametri dattilici più di altre semplici descrizioni ed erano un modo per il cantore di attenersi con formule alla metrica. Ho sempre sospettato che alcune di queste frasi rituali, per esempio "l’Alba che allarga le rosee dita", fossero anche dei segnatempo verbali che davano al Bardo qualche istante per ricordare, se non inventare, le successive linee d’azione.

Eppure, non appena Era comincia a replicare al marito, le guardo le braccia. «Figlio di Crono, temuta maestà» dice lei, tenendo conserte le bianche braccia «di che diavolo parli? Come osi pensare di rendere inutili tutte le mie fatiche? Qui si tratta di sudore, sudore di mortali, versato nel calare in mare gli eserciti dell’Acaia, lisciando l’ego di quegli eroi maschi solo per evitare che si uccidessero l’un l’altro prima di uccidere i troiani e prendendomi grande pena — la mia pena, o Zeus — nell’accumulare pena maggiore su re Priamo e i figli di Priamo e la città di Priamo.»

Zeus aggrotta le ciglia e si sporge dal trono all’apparenza poco comodo, stringendo e aprendo i pugni.

Era allarga le braccia e alza al cielo le mani, esasperata. «Fai come vuoi, tanto lo fai sempre, ma non t’aspettare l’approvazione di noi immortali.»

Zeus si alza. Se gli altri dèi sono alti dai due metri e quaranta ai due e settanta, lui supera di sicuro i tre metri e mezzo. Adesso ha la fronte scavata da solchi, più che corrugata; e non uso una metafora, dicendo che tuona: «Era… mia cara, amata, insaziabile Era! Cos’hanno mai fatto, a te, Priamo e i figli di Priamo, per farti divenire così infuriata, così inesorabile nel distruggere Ilio?».

Era rimane in silenzio, le mani lungo i fianchi. Il suo comportamento pare solo accrescere la collera di Zeus.

«Il tuo è appetito, più che collera, o dea!» tuona Zeus. «Non sarai soddisfatta finché non abbatterai le porte, non distruggerai le mura e non divorerai crudi i troiani.»

L’espressione di Era non fa niente per negare l’accusa.

«Bene… bene…» tuona Zeus, quasi farfugliando in un modo che ben conoscono i mariti di tutte le epoche «fa’ come vuoi! Ma sappi ancora una cosa… e tienila a mente, Era: quando verrà il giorno che piacerà a me distruggere una città e consumare i suoi abitanti, una città che tu ami come io amo Ilio, non pensare nemmeno di tentare di opporti alla mia ira.»

La dea muove tre rapidi passi avanti e mi ricorda un animale da preda che spicchi il balzo o un maestro di scacchi che veda un’apertura e ne approfitti. «Sì. Le tre città che più amo sono Argo e Sparta e Micene dalle larghe vie, ampie e regali come quelle della sventurata Ilio. Puoi saccheggiarle tutte come più aggrada al tuo cuore di vandalo, mio Signore. Non mi opporrò. Non disapproverò la tua volontà, tanto ben poco me ne verrebbe in ogni caso, visto che sei il più forte fra noi due. Ma non dimenticare una cosa, o Zeus: anche se sono la tua consorte, nacqui anch’io da Crono e merito perciò il tuo rispetto.»

«Non ho mai detto il contrario» brontola Zeus e si accomoda di nuovo sul duro seggio.

«Allora ciascuno ceda all’altro, su questo punto» dice Era, con tono chiaramente più dolce. «Io a te e tu a me. Gli dèi di minore importanza si adegueranno. Non perdiamo tempo, ora, marito mio! Achille ha già lasciato il campo, ma una lamentosa tregua rende tranquillo il terreno aperto fra troiani e achei. Fa’ in modo che i troiani rompano la tregua e facciano il primo torto non solo al loro giuramento, ma anche ai rinomati achei.»

Zeus guarda in cagnesco, brontola, si agita sul trono, ma ordina all’attenta Atena: «Vai subito giù nel terreno aperto fra troiani e achei. Ti ordino di provvedere che i troiani siano i primi a rompere la tregua e facciano il primo torto ai rinomati achei».

«E in trionfo calpestino gli argivi» insiste Era.

«E in trionfo calpestino gli argivi» ordina stancamente Zeus.

Atena si telequanta in un lampo e scompare. Zeus ed Era lasciano la sala e gli altri dèi cominciano ad allontanarsi, parlando sottovoce fra loro.

Con un rapido movimento del dito, la Musa mi indica di seguirla e mi guida fuori della sala d’assemblea.

«Hockenberry» dice la dea dell’amore, adagiandosi sui cuscini del divano, mentre la gravità, per quanto leggera, mette in risalto il suo fisico voluttuoso, serico e latteo.

La Musa mi ha condotto in quest’altra stanza della Grande Sala degli Dèi, questa stanza in penombra, con solo il duplice lucore di un braciere a fuoco basso e di un oggetto che ha una sospetta somiglianza con uno schermo di computer. Mi ha mormorato di non usare l’Elmo di Ade e perciò mi sono tolto il cappuccio di cuoio, con sollievo, ma col terrore di essere di nuovo visibile.

Poi è entrata Afrodite, si è accomodata sul divano e ha detto: «Questo è tutto, Melete, finché non ti chiamo di nuovo» e la Musa è uscita da una porta segreta.

"Melete" penso. Non una delle nove Muse, ma un nome di un’epoca anteriore, quando si riteneva che le Muse fossero tre: Melete delle "professioni", Mneme del "ricordo" e Aoide del…

«Hockenberry, ero in grado di vederti nella Sala degli Dèi» dice Afrodite, strappandomi alle fantasticherie da scoliaste «e se ti avessi indicato al signore Zeus, adesso saresti meno di cenere. Neppure il medaglione telequantico ti avrebbe permesso di fuggire, perché avrei potuto seguire nel tempo e nello spazio la tua pista di cambiamento di fase. Sai perché ti trovi qui?»