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ANELLO EQUATORIALE

Daeman urlò per tutta l’ascesa.

Probabilmente anche Savi e Harman urlavano, non avrebbero potuto farne a meno, ma Daeman udiva solo il proprio grido. Le poltrone erano decollate in verticale, poi avevano cominciato a beccheggiare ruotando sull’asse costituito dal fulmine e Daeman — a faccia in giù, tremila metri sopra il verdeggiante bacino del Mediterraneo, senza smettere un secondo di urlare — si era sentito compresso con forza: un impedimento era causato dall’accelerazione, ma l’altro era una costante, generale pressione dovuta di sicuro a una sorta di campo di forza. Non solo lo schiacciava sui cuscini della poltrona che saliva a tutta velocità, ma gli premeva sul viso, sul petto, nella bocca, nei polmoni.

Daeman continuò a urlare.

Le tre poltrone ruotavano in senso antiorario intorno al massiccio dardo di bianca energia e all’improvviso Daeman si trovò a fronteggiare le stelle e gli anelli. Continuò a urlare: sapeva che la poltrona non avrebbe smesso di ruotare, che stavolta lui sarebbe caduto fuori e che la caduta sarebbe stata da un’altezza di decine di migliaia di metri.

Non cadde, ma urlò giù alla Terra, mentre volavano più in alto. La traiettoria pareva ora quasi piatta, quasi parallela alla superficie del pianeta così lontano, in basso. Era notte sopra l’Asia centrale, ma cumuli torreggiami, estesi per centinaia di chilometri, erano illuminati dall’interno, rapidi lampi che rischiaravano la rossa massa terrestre visibile fra la perlacea copertura di nubi. Daeman non sapeva che era l’Asia centrale. Le poltrone ruotarono di nuovo, gli mostrarono le stelle e gli anelli e un sottile strato di atmosfera, ora ben visibile in basso; poi il sole parve sorgere di nuovo, a ovest, con una diffrazione prismatica in quel menisco di atmosfera, vividi festoni rossi e gialli.

Ormai erano fuori dal novantanove per cento dell’atmosfera, ma Daeman non lo sapeva. Il campo di forza gli forniva aria, gli impediva di essere lacerato da forze gravitazionali, gli concedeva una sacca d’aria dove gridare e lui era già diventato quasi rauco, quando si rese conto che si avvicinavano all’anello-e.

L’anello non era ciò che aveva sempre immaginato, ma Daeman era troppo preso a stringere con forza i braccioli della poltrona e a urlare, per notarlo. Aveva sempre immaginato gli anelli dei post come strutture composte di migliaia di lucenti cilindri, contenitori di vetro o di metallo nei quali si vedevano i post-umani divertirsi e dedicarsi alle loro occupazioni. Non era affatto così.

Molti degli oggetti brillanti verso cui salivano velocemente, con il fulmine filiforme che oscillava e tremolava e correva ancora più su e lontano da loro che lo cavalcavano, erano complesse strutture di puntoni e cavi e lunghi tubi di vetro, più simili ad antenne che a case orbitali. All’estremità di alcune strutture c’erano ardenti sfere di energia, ciascuna con al centro una sfera pulsante, nera. Altre strutture sostenevano specchi giganteschi — ciascuno del diametro di chilometri, notò Daeman, senza smettere di urlare — che riflettevano o emettevano verso altri specchi un raggio di energia, azzurro o giallo o bianco opaco. Luccicanti anelli e sfere, che parevano fatti della stessa energia-materia esotica di Atlantide, scagliavano raggi laser e facevano pulsare propulsori d’assetto in scoppi studiati che si aprivano e si allargavano in ardenti coni di particelle. Nessuna sfera o anello o struttura pareva una possibile abitazione per post-umani.

L’orizzonte terrestre divenne chiaramente curvo, poi ancora più curvo, come un arco teso lentamente. Il sole tramontò di nuovo, a ovest, e il cielo esplose di stelle solo appena meno luminose delle brillanti strutture dell’anello in alto. Molto più in basso, migliaia di chilometri almeno, Daeman scorse una catena di montagne dalla cima coperta di neve, brillanti nella luce delle stelle e dell’anello. Più lontano verso ovest, nei pressi del limbo marcatamente ricurvo del pianeta, luccicava un oceano. All’improvviso la rotazione delle poltrone rallentò e Daeman piegò il collo per guardare in su.

Fra le incastellature in movimento e gli specchi ruotava una montagna con una città avviluppata tutt’intorno.

Daeman smise per un attimo di urlare, mentre le poltrone si inclinavano con violenza in avanti e il campo protettivo lo premeva con più forza contro il sedile e la spalliera, e in quel secondo di pausa notò che il cavo di energia lungo il quale scivolavano terminava nella lucente città sul gigantesco lastrone di roccia.

Quella città non era di energia, pareva di vetro; e le centinaia di migliaia di pannelli e di sfaccettature erano illuminati dall’interno. Daeman pensò a una gigantesca lanterna giapponese. Proprio mentre si rendeva conto che il loro rotante triangolo di poltrone si sarebbe schiantato contro una delle più alte guglie circolari nell’estremità vicina della montagna orbitante, la poltrona si capovolse completamente e il campo di forza gli tolse il fiato: la decelerazione fu tanto violenta da fargli passare la vista dal rosso al nero e di nuovo al rosso.

Non avevano rallentato abbastanza. Daeman urlò ancora, ormai completamente rauco. Poi le poltrone urtarono l’edificio, di sicuro alto un centinaio di piani.

Non ci fu schianto di vetri rotti né un fatale arresto improvviso. La parete dell’edificio si distorse, li assorbì e li incanalò in un lungo cono lucente, come se si fossero tuffati in cedevole gomma gialla; poi l’imbuto li sputò fuori, in una stanza con sei lucenti pareti bianche. Il cavo di energia scomparve. Le poltrone volarono in direzioni diverse. I campi di forza si spensero.

Daeman urlò un’ultima volta, scivolò sul duro pavimento, rimbalzò contro una parete ancora più dura, poi contro il soffitto e di nuovo sul pavimento. Allora vide solo tenebra.

Stava cadendo.

Daeman rinvenne bruscamente: corpo e cervello gli dicevano che ruzzolava, cadeva. Dalla poltrona? Sulla Terra? Aprì la bocca per urlare di nuovo, ma la richiuse subito, accorgendosi di galleggiare a mezz’aria, mentre Savi lo teneva per un braccio e Harman per l’altro.

"Sto galleggiando? Sto cadendo!" Si contorse, si dimenò, ma Savi e Harman (anche loro galleggiavano nella bianca stanza) ruzzolarono con lui a mezz’aria e continuarono a tenerlo per le braccia.

«Va tutto bene» disse Savi. «Siamo a gravità zero.»

«A cosa?» ansimò Daeman.

«Gravità zero. Assenza di peso. Tieni, mettiti questa.» Gli diede una maschera osmotica. Gli avevano già calato sul viso il cappuccio della termotuta che automaticamente gli aveva coperto le mani. Daeman si dibatté, confuso, ma la vecchia e l’anziano gli tirarono sul naso e sulla bocca la maschera osmotica.

«È stata concepita come respiratore d’emergenza in caso d’incendio o in presenza di gas tossici» disse Savi. «Ma funzionerà anche nel vuoto, per alcune ore.»

«Vuoto?» ripeté Daeman.

«La città dei post ha perduto la gravità e anche un mucchio d’aria» disse Harman. «Abbiamo già attraversato il muro, mentre eri svenuto. C’è aria sufficiente per nuotarci, ma non per respirare.»

"Sufficiente per nuotarci?" pensò Daeman, malgrado il mal di testa. "Abbiamo già attraversato il muro? Sono impazziti tutt’e due." Disse: «Come si perde gravità?».

«Credo che usassero campi di forza per conservare una certa gravità su questo asteroide» spiegò Savi. «Questo masso non è tanto grande da generare per conto suo una gravità apprezzabile e la città interna mostra segni di essere orientata verso il terreno.»

Daeman non chiese che cos’era un asteroide. Non gli importava. «Possiamo tornare giù?» domandò e subito aggiunse: «Su quelle poltrone non mi ci siedo mai più».

Il sorriso di Savi era visibile anche sotto la maschera osmotica. La vecchia si era tolta gli indumenti per sfruttare al meglio la termotuta (ne indossava una color pesca) e quella, non più spessa di una mano di vernice, lasciava vedere quanto fosse magra e ossuta. Anche Harman indossava solo una termotuta, azzurra. Daeman si guardò e si rese conto che lo avevano spogliato e che la sua termotuta, verde, lasciava vedere quanto fosse grasso. Con termotuta e maschera osmotica, udiva la voce degli altri dagli auricolari e anche la lieve eco della propria voce che gracchiava nel microfono incorporato.