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«Posso» rispose Mahnmut ricevendo la parola da Orphu. Nessuno dei due conosceva il giusto titolo onorifico per il massimo dio, il re degli dèi, il signore dell’universo. Decisero di non provarci.

«Anche i Guaritori possono parlare» replicò bruscamente Apollo, sempre rivolgendosi a Zeus. «Ma non possono pensare.»

«Io parlo e penso» ribatté Mahnmut.

«Davvero?» esclamò Zeus. «La piccola persona che parla e pensa ha un nome?»

«Sono Mahnmut il moravec» rispose, deciso. «Marinaio dei mari ghiacciati di Europa.»

Zeus ridacchiò, un rombo così profondo da far vibrare il materiale del rivestimento esterno di Mahnmut. «Lo sei anche adesso? Chi è tuo padre, Mahnmut il moravec?»

A Mahnmut e Orphu occorsero due interi secondi per decidere che cosa rispondere in tutta onestà. «Non ho padre, Zeus.»

«Allora sei un giocattolo» concluse Zeus. Quando corrugava la fronte, le grandi sopracciglia bianche quasi si toccavano sopra il naso aguzzo.

«Non sono un giocattolo» ribatté Mahnmut. «Solo una persona in forma diversa. Come il mio amico qui presente, Orphu di Io, moravec dello spazio, che lavora nel toro di Io.» Indicò il guscio e gli occhi divini si posarono su Orphu. Era stato quest’ultimo a insistere per rivelare la propria natura. Voleva condividere la sorte di Mahnmut, aveva detto, quale che fosse.

«Un’altra piccola persona, ma con la forma di un granchio tutto ammaccato?» chiese Zeus. Stavolta non ridacchiò.

«Sì» rispose Mahnmut. «Posso conoscere i nomi di chi ci tiene prigionieri?»

Zeus esitò, Apollo protestò, ma alla fine il re degli dèi, con un ironico inchino, aprì la mano e indicò un dio dopo l’altro. «Colui che ti catturò, come già sai, è Apollo, mio figlio. Accanto a lui, gridando per cento prima che tu ti unissi alla conversazione, c’è Ares. La figura scura dietro Ares è mio fratello Ade, anche lui figlio di Crono e di Rea. Alla mia destra c’è il figlio di mia moglie, Efesto. Il dio regale in piedi accanto al tuo amico granchio è mio fratello Poseidone, convocato qui in onore del vostro arrivo. Accanto a Poseidone, con il collare di dorate alghe marine, c’è Nereo, anche lui degli abissi. Al di là del nobile Nereo c’è Ermes, guida e grande uccisore. Ci sono molti altri dèi… e dee, vedo… in arrivo nella Grande Sala, mentre parliamo, ma questi sette dèi e io stesso saremo la vostra giuria.»

«Giuria?» ripeté Mahnmut. «Il mio amico Orphu e io non abbiamo commesso alcun crimine contro di voi.»

«Al contrario» rise Zeus. Passò all’inglese. «Siete venuti dallo spazio gioviano, piccoli moravec, piccoli robot, probabilmente con l’intenzione di nuocerci. Io e mia figlia Atena abbiamo distrutto la vostra nave ed ero convinto, lo ammetto, d’avervi uccisi tutti. Siete piccoli abomini resistenti. Ma che sia la vostra fine, oggi.»

«Parli la lingua di questa creatura?» chiese Ares a Zeus. «Conosci questa lingua barbara?»

«Tuo padre parla tutte le lingue, dio della guerra» replicò Zeus, brusco. «Fa’ silenzio.»

La smisurata sala e molte balconate si riempivano rapidamente di dèi e di dee.

«Che questo cane/uomo/macchina e questo granchio privo di gambe siano rinchiusi in una stanza del palazzo» disse Zeus. «Conferirò con Era e con altri cui presto orecchio e decideremo cosa fare di loro fra breve. Portate gli altri due oggetti nella vicina stanza del tesoro. Valuteremo il loro valore, di qui a poco.»

Gli dèi chiamati Apollo e Nereo di avvicinarono a Mahnmut. Il piccolo moravec prese in esame la possibilità di ribellarsi e fuggire (nel polso aveva un laser a basso voltaggio che per un paio di secondi avrebbe potuto sorprendere gli dèi e su brevi distanze poteva correre rapidamente a quattro zampe, forse sgattaiolare fuori della Grande Sala, tuffarsi nel lago della caldera e nascondersi sul fondo) ma poi lanciò un’occhiata a Orphu, già sollevato senza il minimo sforzo da quattro dèi non nominati, e si lasciò prendere di peso e portare fuori della sala come un grosso bambolotto metallico.

Secondo il cronometro interno di Mahnmut, rimasero nel magazzino privo di finestre per trentasei minuti, prima che arrivasse il loro carnefice. Il magazzino era un ampio locale con pareti di marmo spesso quasi due metri nelle quali (rivelarono gli strumenti di Mahnmut) erano racchiusi campi di forza in grado di resistere a una piccola esplosione nucleare.

È ora d’innescare il Congegno, trasmise Orphu. Qualsiasi cosa faccia, è sempre meglio che lasciarci distruggere senza lottare.

Lo innescherei, se potessi, rispose Mahnmut. Non era previsto un comando a distanza. E sono stato troppo impegnato a modificare la navicella per costruirne uno alla buona.

Occasioni perdute, trasmise Orphu con una risata. Al diavolo. Ci abbiamo provato.

Ancora non cedo, replicò Mahnmut. Andò avanti e indietro, tastò qua e là il bordo della porta metallica che avevano varcato nell’entrare. Anche quella era sigillata da campi di forza. Forse Orphu, se avesse avuto ancora le braccia, avrebbe potuto aprirvi uno squarcio. Forse.

Che cosa dice Shakespeare quando le cose finiscono in questo modo? chiese Orphu. Will il poeta ha mai detto addio al Giovane?

In realtà, no, disse Mahnmut. Con le dita organiche tastò le pareti. Si separarono in circostanze abbastanza sgradevoli. Lasciarono che la loro relazione si esaurisse lentamente, quando scoprirono di fare sesso con la stessa donna.

Era una battuta? chiese Orphu, serio.

Mahnmut si bloccò, sorpreso. Eh?

Niente, niente.

Che cosa dice, Proust, di questa situazione? chiese Mahnmut.

"Longtemps, je me suis couché de bonne heure" recitò Orphu.

Mahnmut non amava il francese (gli dava l’impressione di olio troppo denso negli ingranaggi) ma lo teneva nel database e tradusse la frase: "Per lungo tempo mi sono coricato di buon’ora". Dopo due minuti e ventinove secondi, trasmise: Il resto è silenzio.

La porta si aprì e una dea alta più di due metri entrò nella stanza. Chiuse e sigillò la porta. Reggeva a due mani un ovoide argenteo i cui piccoli fori neri erano puntati su di loro. Mahnmut capì istintivamente che non avrebbe risolto niente, saltandole addosso. Arretrò finché riuscì a toccare il guscio di Orphu, pur sapendo che l’amico non poteva percepire il contatto.

La dea disse: «Mi chiamo Era e sono venuta a porre fine una volta per tutte alle sofferenze di voi due sciocchi, sciocchi moravec. La vostra razza non mi è mai piaciuta».

Ci furono un lampo e un sobbalzo e scese l’oscurità assoluta.

42

OLIMPO E ILIO

Nell’istante in cui vedo Teti, Afrodite e la mia Musa entrare nella Grande Sala provo l’impulso di telequantarmi lontano dall’Olimpo, ma ricordo che Afrodite ha lo stesso potere che ha dato a me, può vedere e rintracciare perturbazioni nel continuum quantico. Un’uscita frettolosa attirerebbe la sua attenzione. E poi qui ho ancora da fare.

Scivolo di lato, mettendo dèi e dee fra me e il terzetto appena entrato, mi sposto dietro una larga colonna e in punta di piedi esco dalla Grande Sala. Sento le grida furiose di Ares, che vuole ancora sapere cos’è accaduto in sua assenza sul campo di battaglia di Ilio, e poi odo Afrodite dire: «Signore Zeus, padre, anche se non mi sono ancora ripresa dalle terribili ferite, ho chiesto di lasciare la vasca di guarigione e di venire qui perché mi è stato riferito che un uomo mortale ha rubato un medaglione TQ e l’elmo forgiato per l’invisibilità dal qui presente Ade. Temo che questo mortale stia facendo grandi danni anche ora, mentre parliamo».