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«Merda» dico. Ormai le voci sono proprio fuori della porta. Mi sgancio la corazza, mi tolgo l’elmo e lo tiro al robot. Il marchingegno di Ade funzionerà per una macchina? Devo dire a Mahnmut che Afrodite può vedere chi sfrutta il congegno d’invisibilità? Non c’è tempo, ora. «Come ti trovo, al ritorno?»

«Vieni sui lato più vicino del lago della caldera in qualsiasi momento della prossima ora» dice il robot. «Ti troverò io.»

La porta si apre. Il piccolo robot scompare.

Con Nightenhelser e Patroclo mi sono limitato ad afferrarli per includerli nel campo TQ, anche se nel secondo caso cingevo col braccio l’inerte Patroclo. Ora mi appoggio al guscio di Orphu, allungo il braccio fin dove posso, visualizzo la destinazione e mi telequanto.

Vivido sole e sabbia sotto i piedi. Ho telequantato con me il pesante Orphu che ora si libra a venti centimetri dalla sabbia; ed è un bene, perché sotto di lui ci sono piccoli massi tondeggianti. Non penso che sia possibile emergere in un oggetto solido, dopo essersi telequantati, ma sono lieto che oggi non sia stato il giorno giusto per scoprirlo.

Sono nel campo di Agamennone sulla spiaggia, ma a quest’ora del tardo mattino l’area coperta di tende è quasi deserta. Malgrado le nubi tempestose, il sole illumina a chiazze la spiaggia, le tende variopinte e le lunghe navi nere; vedo sentinelle achee che saltano indietro, stupefatte, alla nostra improvvisa comparsa. Sento il fragore della battaglia a qualche centinaio di metri dal campo e capisco che greci e troiani combattono ancora al di là delle trincee difensive. Forse Achille guida un contrattacco.

«Il guscio è sacro agli dèi!» grido alle sentinelle, acquattate dietro la propria lancia. «Non toccatelo, pena la morte. Dov’è Achille? È stato qui?»

«Chi lo vuole sapere?» replica la sentinella più alta e più irsuta. Solleva la lancia. Riconosco il guerriero, Guneo, comandante degli enieni e dei perebi di Dodona. Cosa faccia oggi, lì di guardia al campo di Agamennone, non lo so e non ho tempo di scoprirlo.

Stordisco Guneo e guardo il suo vice, un basso sergente dalle gambe arcuate. «Allora, mi porti da Achille?»

L’uomo pianta nella sabbia il calcio della lancia, piega il ginocchio e china brevemente la testa. Gli altri esitano, ma poi lo imitano.

Chiedo dov’è ora Achille.

«Per tutta la mattinata il divino Achille è andato su è giù per la battigia, chiamando gli achei addormentati e svegliando con grida acute i condottieri» dice il sergente. «Poi ha sfidato a singoiar tenzone gli Atridi e li ha battuti. Adesso è con i grandi generali e progetta una guerra, dicono, contro lo stesso Olimpo.»

«Conducimi da lui» ordino.

Mentre mi guidano fuori del campo, mi lancio un’occhiata alle spalle, vedo Orphu di Io librato sulla sabbia, con le altre sentinelle a rispettosa distanza, e rido sonoramente.

Il piccolo sergente mi fissa, ma non gli do spiegazioni. È solo che questa è la prima volta in nove anni che cammino liberamente sulla piana di Ilio senza morfizzarmi, come Thomas Hockenberry e non come qualcun altro. Una sensazione magnifica.

43

ANELLO EQUATORIALE

Proprio prima di trovare lo spedale, Daeman aveva preso a lamentarsi perché moriva di fame. Moriva davvero di fame. Non aveva mai lasciato passare tutto quel tempo fra un pasto e l’altro. L’ultima cosa che aveva mangiato era stata quattro miseri pezzetti dell’ultima tavoletta di cibo essiccato, quasi dieci ore prima.

«Dev’esserci qualcosa da mangiare, in questa città!» diceva Daeman. I tre si davano la spinta coi piedi e nuotavano per la morta città orbitante. Sopra di loro, i pannelli luminosi avevano lasciato posto a pannelli trasparenti e i tre vedevano che l’asteroide e la città ruotavano lentamente. Compariva la Terra, attraversava il loro campo visivo e con la sua tenue luce illuminava lo spazio vuoto, i cadaveri galleggianti, le piante morte e i fuchi fluttuanti. «Ci deve essere qualcosa da mangiare, qui» ripeté Daeman. «Scatolette, surgelati… qualcosa.»

«Se c’è, è vecchio di secoli» disse Savi. «Mummificato come i post-umani.»

«Se troviamo un servitore, ci sfamerà lui» replicò Daeman e subito si rese conto d’avere detto una grande sciocchezza.

Harman e la vecchia non si presero nemmeno la briga di rispondergli. Galleggiavano in una piccola radura nella distesa di fuchi. Lì l’aria pareva un po’ più densa, ma Daeman non si tolse la maschera osmotica né il cappuccio della termotuta per provare a respirarla. Anche con la maschera sapeva che quell’aria era puzzolente.

«Se troviamo un portale fax» disse Harman «lo useremo per tornare a casa.» Il corpo di Harman era muscoloso e teso nella termotuta azzurra, ma Daeman vedeva, dalla maschera trasparente del compagno, il principio di rughe intorno agli occhi: Harman pareva più vecchio del giorno prima.

«Non so se qui ci sono portali fax» disse Savi. «E non userei di nuovo il fax, se potessi evitarlo.»

Harman la guardò. In alto la Terra entrò nel loro campo visivo e la sua tenue luce illuminò fiocamente il loro viso. «Abbiamo scelta?» replicò Harman. «Le poltrone erano un viaggio di sola andata, hai detto.»

Savi sorrise stancamente. «Il mio codice non è più nelle loro banche fax. Oppure, se c’è, è lì solo per essere cancellato. Temo che la stessa cosa valga anche per voi due, dopo che i voynix ci hanno scoperto a Gerusalemme. Ma ammettendo che i vostri codici siano validi, se trovassimo un nodo fax e in qualche modo riuscissimo a far funzionare il macchinario… perché qui, sapete, non ci sono i normali fax… e io restassi qui per faxarvi a casa, non credo che funzionerebbe.»

Harman sospirò. «Non ci resta che trovare un altro modo.» Girò lo sguardo per la città scura, sui cadaveri congelati e sugli ondeggianti letti di fuchi. «Non era ciò che mi aspettavo negli anelli, Savi.»

«No» disse la vecchia. «Nessuno di noi se l’aspettava. Anche ai miei tempi credevamo che le migliaia di luci nel cielo notturno indicassero milioni e milioni di post-umani in migliaia di città orbitali.»

«Secondo te, quante città avevano?» chiese Harman. «Oltre a questa.»

Savi si strinse nelle spalle. «Forse solo una nell’anello polare. Forse nemmeno quella. Immagino che i post-umani si fossero ridotti a qualche migliaio, quando furono colpiti dall’olocausto.»

«Allora cos’erano tutte quelle macchine e congegni che abbiamo visto venendo su?» chiese Daeman. Non gliene fregava niente, il suo era solo un tentativo di non pensare allo stomaco vuoto.

«Acceleratori di particelle» rispose Savi. «I post avevano l’ossessione per i viaggi nel tempo. Quei grossi acceleratori producevano migliaia di minuscoli wormholes che i post torcevano in wormholes stabili, le masse turbinanti che abbiamo visto all’estremità della maggior parte degli acceleratori.»

«E gli specchi giganti?» chiese Harman.

«Effetto Casimir» rispose Savi. «Riflettono energia negativa nei wormholes per impedire che implodano in buchi neri. Se i wormholes fossero stati stabili, i post avrebbero potuto viaggiare attraverso di essi in ogni luogo dello spazio-tempo dove potessero posizionare l’altro capo del wormhole.»

«Altri sistemi solari?» chiese Harman.

«Non credo. Non penso che i post abbiano fatto in tempo a inviare sonde fuori del nostro sistema solare. Molto prima che nascessi io, hanno seminato nella parte esterna del nostro sistema solare robot intelligenti in grado di evolversi da soli, perché avevano bisogno di asteroidi dove costruire materiali, ma non avevano astronavi, robotizzate o normali.»

«Allora dove andavano, con i wormholes?» chiese Harman.

Savi si strinse nelle spalle. «Credo sia stata l’attività quantica a…»