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«Maledizione, basta!» gridò Daeman. Aveva ascoltato fin troppo quei discorsi privi di senso. «Ho fame! Voglio mangiare!»

«Aspetta» disse Harman. «Guardate laggiù.» Indicò in alto, più avanti, nella loro direzione di viaggio.

«Lo spedale» disse Savi.

Non si era sbagliata. Avevano nuotato per un altro estenuante chilometro nella luce sottomarina della città asteroide morta, senza badare ai ripetuti incontri con le grigie mummie galleggianti dei post-umani, finché non avevano visto con chiarezza, a un centinaio di metri su una parete luminosa, il rettangolo di plastica trasparente. Dentro, per centinaia di metri, c’erano file e file delle ben note vasche di guarigione, piene di corpi nudi di umani vecchio stile, servitori affaccendati (Daeman quasi si commosse, a quella vista familiare) e altre sagome che si muovevano qua e là per il salone nella vivida luce dello spedale.

«Un momento» ansimò Daeman. Avevano nuotato nella sottile aria tossica vicino al terreno, trovando puntelli, terrazze, alberi morti e altri oggetti solidi su cui puntare i piedi per darsi la spinta, ma Daeman era esausto. Non aveva mai faticato così duramente.

Savi era impaziente di volare verso il luminoso ospedale, ma tornò sui suoi passi e si librò accanto all’ansante Daeman. Harman guardò con espressione quasi famelica la sala dalle pareti trasparenti.

Savi porse a Daeman la bottiglia e lui, senza esitare e senza chiedere permesso, bevve tutta l’acqua rimasta. Era disidratato e sfinito.

«Avevo prom’esso a Ada di portarla con noi» disse piano Harman.

Daeman e la vecchia lo guardarono.

«Ero sicuro che avremmo viaggiato in un’astronave» continuò Harman, imbarazzato, con una scrollata di spalle. «Le avevo promesso che mi sarei fermato a villa Ardis per prenderla a bordo.»

«Tanto, era furiosa con te comunque» disse Daeman, fra un ansito e l’altro. Pareva che la maschera osmotica non riuscisse a fornirgli l’ossigeno di cui necessitava.

«Già» disse Harman.

Savi spinse di lato un cadavere grigio dilaniato che si era liberato dai fuchi e i cui occhi immobili parvero fissarli con rimprovero. «Non credo proprio che Ada sarebbe molto contenta, se ora fosse qui» disse. Indicò lo spedale. «Ma tu dovresti essere contento, Harman. Era la tua meta, no? Andare nello spedale e ottenere ancora qualche anno.»

«Qualcosa del genere» rispose Harman.

Savi fece un cenno in direzione del cadavere. «Sembra proprio che non dovrai negoziare con i post.»

«Pensi che lo spedale sia automatizzato?» chiese Harman. «Che negli ultimi secoli siano stati i servitori a mantenerlo in funzione, faxandoci su, riparandoci per le cinque Ventine assegnateci e poi faxandoci di nuovo alla nostra monotona vita?»

«Saliamo a scoprirlo» propose la vecchia.

Entrarono nel lucente rettangolo dalle pareti di vetro, varcando un bianco quadrato di parete semipermeabile, simile a quello nella camera d’equilibrio.

Era lo spedale. Non solo aveva luce e aria, ma anche, chissà come, un decimo della gravità terrestre. Attraversata la parete, Daeman cadde sulle mani e sulle ginocchia, incapace di adattarsi alla leggera, ma persistente, attrazione gravitazionale. L’improvviso cambiamento, più la benvenuta vista dei fin troppo familiari servitori, più il terrore di tornare nello spedale così presto dopo l’episodio dell’allosauro gli rendevano le gambe troppo deboli per reggersi in piedi anche in quel campo gravitazionale da piscina.

Savi e Harman passarono di vasca in vasca. Savi si tolse la maschera osmotica e provò a respirare. «L’aria è rarefatta e ha un puzzo orribile» disse, con voce che risuonò strana e stridula. «Servirà di sicuro a qualcosa, ma è troppo viziata per respirarla. Non toglietevi le maschere.»

Daeman non ebbe bisogno di farsi pregare: tenne addosso la maschera.

I servitori non badarono a loro e continuarono ad affaccendarsi intorno a vari pannelli di comando virtuali. Condutture trasparenti e tubi mostravano liquidi verdi e rossi che scorrevano nelle vasche e ne uscivano. Harman guardò in ogni vasca, alta tre metri. I corpi umani in ciascuna di queste erano, per la maggior parte, quasi perfetti, ma non formati: pelle troppo liscia, zone craniali e pubiche glabre, occhi bianchi. Soltanto alcune figure galleggianti erano quasi complete e i loro occhi, che mostravano colore e una torpida intelligenza, parvero ammiccare ai tre estranei.

Daeman camminò dietro gli altri due, tenendosi più lontano dalle vasche. Guardò quei proto-umani, ricordò le immagini annebbiate che lui stesso aveva visto dalla vasca solo qualche giorno prima e rabbrividì di nuovo, arretrando fino a sbattere contro un bancone. Un servitore si librò intorno a lui, ma non gli badò.

«È chiaro che non sono programmati per trattare con esseri umani che non si trovino nelle vasche» disse Savi. «Ma, se interferiste nel loro lavoro, probabilmente farebbero qualcosa per togliervi dai piedi.»

All’improvviso una luce verde palpitò su una vasca che conteneva un corpo interamente ricostruito, una giovane donna con occhi celesti, capelli e peli rossi, e il liquido cominciò a ribollire violentemente. L’attimo dopo, il corpo era sparito. Passò ancora qualche secondo e nella vasca si materializzò un altro corpo, stavolta un pallido maschio dagli occhi fissi e morti, con una ferita sulla fronte.

«Hanno un portale fax in ogni vasca!» esclamò Daeman. Poi capì che non poteva essere diversamente: era quello il modo per portare su i corpi allo scadere di ogni Ventina o dopo una grave ferita. O la morte. «Potremmo usare questi nodi fax.»

«Forse potresti usarlo tu» disse Savi, scrutando da vicino una vasca. «E forse neppure tu. Il fax ha il codice del corpo nella vasca. Il macchinario potrebbe non riconoscere il tuo codice e buttarti fuori, semplicemente.»

Liquidi colorati fluirono nella vasca con il nuovo cadavere. Gruppi di minuscoli vermi azzurri comparvero da un’apertura, nuotarono fino al morto e s’infilarono nel cranio rotto e nella carne bianca ed enfiata.

«Vuoi ancora il tuo supplemento di vasca?» chiese Savi a Harman.

Harman si limitò a sfregarsi il mento e a scrutare le file di vasche lucenti. A un tratto segnò a dito. «Dio santo!» esclamò.

I tre si avvicinarono lentamente, metà camminando metà galleggiando nella gravità, bassa ma non trascurabile. Daeman non credette ai suoi occhi, semplicemente.

Un terzo delle vasche da quella parte conteneva liquido, ma non corpi umani. Però c’erano corpi, parti di corpo per meglio dire, in ogni spazio disponibile: sul pavimento, su tavoli, mensole, perfino su servitori disattivati. Alla prima occhiata, Daeman pensò… si augurò… che fossero altri resti mummificati dei post, per quanto orribile fosse l’idea; ma quelle non erano mummie. E neppure resti di post-umani.

Lo spedale era il buffet di qualcuno.

Disposte sul lungo tavolo davanti a loro c’erano parti di corpo umano, bianche, rosa, rosse, umide, sanguinanti, fresche. Decine di figure su quel tavolo, maschi e femmine, all’apparenza ancora bagnate per la permanenza nelle vasche, erano sventrate, organi estratti, carne strappata a morsi da costole insanguinate. Sotto il tavolo c’era una testa umana, occhi azzurri sbarrati in quello che forse era stato un istante di shock, mentre qualcuno, uomo o animale, sbranava il corpo al quale era attaccata. Una piccola pila di mani giaceva davanti a una sedia girevole dall’alta spalliera, rivolta dall’altra parte rispetto al tavolo.

Prima che uno di loro potesse aprire bocca, la sedia ruotò. Per un secondo Daeman pensò che fosse un altro corpo umano messo lì seduto, ma questo era verdastro, intatto e respirava. Occhi gialli ammiccarono. Avambracci incredibilmente lunghi e dita munite d’artigli si distesero. Una lingua da lucertola saettò su lunghi denti.

«Forse credevi ch’io fossi come te?» disse quello che, si rese conto Daeman, era di sicuro il vero Calibano. «Hai pensato male.»