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Savi e Harman afferrarono Daeman e se lo tirarono dietro, mentre si davano la spinta e fuggivano in fondo allo spedale e questi urlava come aveva urlato durante tutto il viaggio fino all’anello. Colpirono a corpo morto la parete bianca, la oltrepassarono senza fermarsi, sentirono le termotute restringersi quando si trovarono nel gelido vuoto quasi completo fuori dello spedale, si diedero una forte spinta contro la parete trasparente e si tuffarono verso il terreno, novanta metri più in basso.

Savi e Harman lasciarono le braccia di Daeman e si fermarono su una piattaforma a venti metri dalla base della città. Daeman ebbe il tempo di notare le mummie galleggianti tutt’intorno, pezzi della gola e del ventre strappati da morsi della stessa misura di quelli degli umani nello spedale, e capì di essere sul punto di vomitare nella maschera osmotica; poi gli altri due trovarono un oggetto solido per darsi la spinta e nuotarono verso le tenebre più avanti.

Disperato, Daeman si tolse la maschera e vomitò nel vuoto e nella puzzolente aria gelida. Si sentì scoppiare i timpani e gonfiare gli occhi, e si rimise a posto la maschera (sentendo il puzzo del proprio vomito e della propria paura) e con un calcio si lanciò dietro Savi e Harman. Non voleva correre. Voleva solo rannicchiarsi, galleggiare strettamente appallottolato e vomitare di nuovo. Ma perfino lui si rese conto di non avere quella possibilità. Agitando disperatamente le braccia, girando la testa a guardare le luci dello spedale, nuotò e corse e scalciò per salvarsi la vita.

Calibano li raggiunse nell’angolo più buio della città, dove i letti di fuchi ondeggiavano, mossi dalla forza di Coriolis dell’asteroide in lenta rotazione. Lì tutte le pareti della città erano trasparenti e mostrarono per vari minuti la Terra imbiancata di nubi e poi il buio interrotto solo dalle gelide stelle. Fu nel buio che Calibano giunse.

I tre si erano rannicchiati vicini nell’oscurità.

«L’avete visto uscire dallo spedale?» ansimò Savi.

«No.»

«Non ho visto niente mentre scappavamo» ansimò Harman.

«Era un calibani?» ansimò Daeman. Si rese conto di piangere e se ne fregò. Mise nella domanda l’ultima riserva di speranza.

«No» disse Savi, nella radio della tuta, con un tono che spazzò le ultime speranze di Daeman. «Era Calibano in persona.»

«Quei corpi…» cominciò Harman. «Quinta Ventina?»

«Alcuni parevano anche più giovani» bisbigliò Savi. Impugnava la pistola, girava su se stessa, scrutava nel buio fra gli ondeggianti steli dei fuchi.

«Forse la creatura soleva mietere solo le quinte Ventine» mormorò Harman. «Ma si è fatta più audace. Impaziente. Affamata.»

«Gesù, Gesù, Gesù, Gesù» sibilò Daeman. Era una delle più antiche invocazioni note alla razza umana, anche se lui non ne conosceva il significato. Gli battevano i denti.

«Hai ancora fame?» chiese Savi. Forse tentava di calmare Daeman, con un’approssimazione di umorismo. «A me è passata.»

«A me no» disse Calibano sulla loro frequenza radio. Emerse dai fuchi, lanciò su di loro una rete, facendo cadere di mano la pistola a Savi, e li tirò a sé come pesci.

44

OLYMPUS MONS

Mahnmut trovò strano non avere Orphu in collegamento radio. Si augurò che l’amico fosse al sicuro.

Gli dèi irruppero nella stanza un secondo dopo che l’umano, che non si era presentato, si era telequantato fuori. Mahnmut non credeva nell’invisibilità, se non sotto forma di buon materiale antiradar, ma si accorse d’essere invisibile agli dèi e dee che affollarono la stanza e s’inginocchiarono intorno a Era. Mahnmut scivolò fra gambe abbronzate e bianche tuniche e cominciò a rintracciare la via nel labirinto di corridoi. Scoprì che era molto duro camminare come un bipede quando si era invisibili (continuava a controllare dov’erano i suoi piedi e non li vedeva da nessuna parte) perciò si mise a quattro zampe e percorse a passo felpato i corridoi.

Quando era stato scortato in cella, aveva approfittato del fatto che gli dèi erano rallentati dall’ingombrante Orphu e così aveva visto dove erano conservati la trasmittente e il Congegno. La stanza si trovava in un corridoio laterale e per raggiungerla bastava svoltare a destra tre volte.

Raggiunto il magazzino, Mahnmut vide che l’androne era vuoto, anche se qualche dio passava spesso nei corridoi vicini; allora attivò il laser da polso a basso voltaggio per tagliare la porta.

Appena iniziato, si rese conto che la scena sarebbe sembrata davvero strana a un dio che fosse capitato lì: un raggio rosso di venti centimetri sospeso a mezz’aria che praticava un foro circolare nel meccanismo di chiusura dell’enorme porta, senza nessuno in vista.

Il laser non sarebbe mai riuscito a tagliare da parte a parte la spessa porta, ma incise un bel cerchio di cinque centimetri sopra il congegno di chiusura (Mahnmut distinse a orecchio il meccanismo a stato solido spostarsi lungo frequenze subsoniche) e la porta si aprì verso l’interno. Mahnmut entrò, la chiuse dietro di sé e dopo qualche secondo appena udì rumore di passi nel corridoio. I passi tirarono dritto. Mahnmut si tolse l’Elmo di Ade per vedere meglio anziché procedere a tastoni.

Quello non era un locale vuoto per prigionieri. La stanza, lunga almeno duecento metri, era piena di lingotti d’oro, mucchi di monete, forzieri con pietre preziose, montagnole di manufatti di bronzo brunito, statue di marmo raffiguranti dèi e uomini, grandi conchiglie marine dalle quali perle traboccavano sul lucido pavimento, cocchi d’oro smantellati, colonne di vetro piene di lapislazzuli, centinaia di altri tesori, tutti sfavillanti per la luce delle fiamme in una ventina di tripodi d’oro.

Mahnmut non badò a quelle ricchezze e corse alla trasmittente di metallo opaco e al Congegno un po’ più piccolo. Non poteva portarli fuori di lì tutt’e due (anche se era invisibile, due oggetti metallici librati nel corridoio avrebbero dato nell’occhio) e aveva solo qualche secondo per darsi da fare; allora trascinò da una parte il Congegno, trovò il connettore giusto e avviò la trasmittente, con un comando standard a basso voltaggio.

La primitiva IA della trasmittente accettò il comando, lasciò cadere il rivestimento di nanocarbonio e mostrò complessi meccanismi ripiegati su se stessi. Mahnmut arretrò, mentre la trasmittente si dondolava in avanti, con la grazia di un acrobata umano, estendeva gambe a treppiede e bracci di energia felschenmass chevkoviana, infine apriva un’antenna a disco larga otto metri. Mahnmut si rallegrò di non avere fatto il tentativo in una stanza piccola.

Ma si trovava pur sempre in un locale privo di finestre, forse sotto tonnellate di marmo e granito e roccia marziana, forse di spessore troppo grande per lasciar passare il segnale. In ogni caso non c’era campo stellare da usare per l’orientamento. Mentre l’antenna ronzava e cercava, Mahnmut sentì crescere la propria ansia… e non solo perché dai corridoi giungevano altre grida. Quello sarebbe stato il primo posto dove gli dèi l’avrebbero cercato (o dove si sarebbero telequantati) dopo essersi accertati delle condizioni di Era. Se la trasmittente non riusciva a stabilire un contatto da lì, la missione di Mahnmut e di Orphu era probabilmente fallita. Tutto dipendeva dalla tecnologia della trasmittente.

L’antenna dondolò, ronzò, si posizionò un’ultima volta e agganciò qualcosa a circa venti gradi dalla verticale. Accanto ai connettori fisici comparve un pannello di comando virtuale e si accesero luci spia verdi.

Mahnmut si collegò e scaricò tutto il contenuto delle sue banche di memoria riguardanti il viaggio, conversazioni con Orphu, frammenti di dialoghi con Koros III, Ri Po o gli dèi, immagini registrate fin dalla partenza dallo spazio gioviano. Con la banda larga, occorsero meno di quindici secondi per completare il riversamento.