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Grazie ai sensori, Mahnmut percepì che nella trasmittente si formava il campo di energia chevkoviana antimateria e si domandò se gli dèi potessero rilevarlo. In ogni caso, sarebbe stato scoperto nel giro di minuti, se non prima. E non aveva modo di lasciare la stanza e l’edificio portando con sé il Congegno. Poteva innescarlo subito o rimandare a più tardi. Nell’uno e nell’altro caso, qualsiasi cosa avvenisse, lui si sarebbe trovato al centro.

Ma per il momento, si disse, non doveva pensare al Congegno. Doveva pensare alla trasmittente.

Una miriade di spie luminose passò al verde, suggerendo a Mahnmut che la fonte d’energia era al massimo della carica, che i dati venivano criptati e che il bersaglio, probabilmente lo spazio gioviano, forse addirittura Europa, era agganciato. Lui almeno se lo augurava.

Battevano alla porta.

"Perché non si telequantano dentro?" pensò Mahnmut. Non perse tempo a cercare una spiegazione. Sostituì le mani con conduttori metallici isolati, trovò la porta d’attivazione finale e trasmise la carica di messa in moto, trentadue volt modulati.

L’antenna emise un raggio giallo largo undici metri. La colonna di pura energia chevkoviana aprì un foro nel soffitto e distrusse altri tre piani, prima di saettare verso le stelle. Poi si spense e la trasmittente si autodistrusse, divenne una pozza di metallo fuso.

I filtri polarizzanti di emergenza erano entrati in funzione nel giro di nanosecondi durante la trasmissione, tuttavia Mahnmut rimase accecato per qualche attimo. Poi vide in alto la serie di fori di sbieco, fumanti, e il cielo; allora, per la prima volta, ebbe un briciolo di speranza.

Gli dèi sfondarono la porta verso l’interno e il punto della stanza del tesoro dove si trovava Mahnmut si riempì di fumo e di vapore.

Il moravec usò quei pochi secondi di copertura fornita dal fumo per prendere il Congegno, che nella gravità terrestre sarebbe pesato dieci chili, ma su Marte ne pesava solo tre; si acquattò, contrasse più che poteva le molle nelle gambe posteriori, senza badare alle tolleranze di progettazione, e con un balzo si lanciò tra i fori fumanti, volando in alto e attraversando quindici metri di marmo frantumato e di granito liquefatto.

Il tetto di quella parte della Grande Sala era piatto e Mahnmut lo percorse correndo, al massimo della velocità su due gambe, euforico d’essere all’aperto, portando sotto il braccio sinistro il Congegno.

Il cielo sopra la vetta di Olympus Mons era azzurro e pullulava di decine di cocchi volanti guidati da dèi e dee. Una di quelle macchine scese in picchiata e passò a gran velocità dieci metri sopra il tetto, con l’evidente intenzione di schiacciare sotto le ruote Mahnmut. Troppo tardi questi si accorse d’avere dimenticato di mettersi l’Elmo di Ade. Adesso era visibile a tutti gli dèi sguinzagliati alla sua ricerca, su in alto.

Sfruttando ogni bit di energia immagazzinata nei suoi sistemi, rimandando a più tardi le preoccupazioni per la ricarica, Mahnmut si raccolse su se stesso e saltò di nuovo, passò dritto fra i cavalli olografici e sorprese con un calcio al petto la dea alla guida della macchina volante. La dea volò all’indietro giù dal cocchio, mulinando le bianche braccia, e atterrò pesantemente sul tetto della Grande Sala degli Dèi.

Mahnmut spese tre decimi di secondo per studiare il display virtuale in ologramma sulla balaustra anteriore del cocchio, poi inserì i manipolatori nella matrice e virò bruscamente a destra. Altri cocchi e divinità vocianti virarono e si tuffarono e risalirono per tagliargli la strada. Era impossibile fuggire dallo spazio aereo di Olympus Mons, però Mahnmut aveva in mente di filarsela da un’altra parte.

Cinque cocchi riducevano rapidamente la distanza e l’aria era già piena di frecce di titanio (frecce, nientemeno!) quando Mahnmut sorvolò il bordo dell’enorme lago della caldera. Prese il Congegno e saltò, proprio mentre la prima freccia di Apollo andava a bersaglio. Il cocchio esplose qualche metro sopra di lui e Mahnmut cadde verso l’acqua, tra gocce d’oro fuso e cubi di energia in fiamme. Sotto una pioggia di microcircuiti, Mahnmut colpì l’acqua. Dal sonar a grande portata seppe che il lago della caldera era profondo più di duemila metri.

"Dovrebbe essere abbastanza" pensò. Attivò le pinne, tenne stretto il Congegno e si immerse in profondità.

45

PIANA DI ILIO — ILIO

Mi sento una merda a non tornare indietro subito a prendere il piccolo robot, ma qui ho un mucchio da fare.

Le sentinelle mi conducono da Achille che si veste da battaglia, circondato dai condottieri ereditati da Agamennone: Odisseo, Diomede, il vecchio Nestore, i due Aiaci… la solita gente, a parte i due Arridi. Sarà vero, come gridava lassù Apollo, che Achille ha ucciso Agamennone, togliendo così a Clitennestra la sanguinosa vendetta e a cento futuri tragediografi un ottimo soggetto? Nel giro d’una notte a Cassandra è stato risparmiato il suo tragico destino?

«Per Ade, chi sei?» ringhia l’uccisore di uomini, il piè veloce Achille, quando il sergente mi guida nel campo interno. Di nuovo mi rendo conto che vedono solo Thomas Hockenberry, dalle spalle cadenti, baffuto e sporco, senza cappa e spada e bardatura di levitazione, uno sciatto fante in opaca corazza di bronzo.

«Sono l’uomo che tua madre Teti ha promesso d’inviare per guidarti da Ettore e poi alla vittoria sugli dèi che hanno ucciso Patroclo» rispondo.

Alle mie parole, i vari eroi e condottieri arretrano di un passo. È chiaro che Achille li ha informati della morte di Patroclo, ma forse non ha parlato del suo piano di fare guerra all’Olimpo.

Achille mi spinge frettolosamente di lato, lontano dal cerchio di stanchi guerrieri in ascolto. «Come faccio a sapere che sei colui che mia madre, la dea Teti, ha menzionato?» chiede questo giovane semidio. Oggi pare più vecchio di ieri, come se nel giro di una notte nuove rughe siano state cesellate sul suo giovane viso.

«Te lo dimostrerò conducendoti dove dobbiamo andare» rispondo.

«L’Olimpo?»

«Non subito» preciso a bassa voce. «Come ha detto tua madre, prima devi fare pace e causa comune con Ettore.»

Achille fa una smorfia e sputa sulla sabbia. «Oggi non riesco a fare pace. Voglio la guerra, oggi. Guerra e sangue divino.»

«Per combattere gli dèi» replico «devi prima porre fine a questa inutile guerra contro gli eroi di Troia.»

Achille si gira e indica le lontane linee di battaglia. Vedo pennoni di Achille, al di là del fossato difensivo, muoversi in quelle che la notte prima erano linee troiane. «Li stiamo battendo» protesta Achille. «Perché fare pace con Ettore quando fra qualche ora avrò sulla punta della lancia le sue budella?»

Mi stringo nelle spalle. «Fa’ pure a modo tuo, figlio di Peleo. Sono stato mandato qui ad aiutarti a vendicare Patroclo e a reclamare il suo corpo per i riti funebri. Se non vuoi, me ne vado.» Gli giro la schiena e mi avvio.

Achille mi raggiunge in un amen, mi getta sulla sabbia ed estrae il pugnale, con tale rapidità che non sarei mai riuscito a colpirlo con lo storditore neanche se da quel gesto fosse dipesa la mia vita. Forse ne dipende davvero, perché Achille mi accosta alla gola la lama affilata come rasoio. «Osi insultare me?»

Parlo con cautela, in modo che la lama non mi tagli. «Non insulto nessuno, Achille. Sono stato mandato qui per aiutarti a vendicare Patroclo. Se vuoi vendicarlo, fa’ come dico.»

Achille mi fissa un momento, poi si alza, rimette nel fodero il pugnale, mi tende la mano e mi aiuta a rimettermi in piedi. Odisseo e gli altri condottieri guardano in silenzio da una decina di metri: è chiaro che muoiono dalla curiosità.

«Qual è il tuo nome?» mi chiede Achille.

«Hockenberry» rispondo, spazzolandomi la sabbia dal fondo schiena e massaggiandomi il collo dove la lama l’ha sfiorato. «Figlio di Duane» aggiungo, ricordando la consuetudine.