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Rimette nel fodero la spada e dice: «Sono pronto, Hockenberry».

I condottieri ci seguono, mentre riaccompagno Achille sulla spiaggia dove ho lasciato Orphu. Le sentinelle non si sono avvicinate all’enorme granchio, che è ancora sospeso in aria grazie alla mia bardatura di levitazione, fatto che non è sfuggito alla sempre più numerosa folla di soldati. Voglio fare un piccolo spettacolo di magia per impressionare Odisseo, Diomede e gli altri condottieri e intanto guadagnarmi un po’ più di rispetto. E poi so che questi altri achei non accecati dall’ira come Achille, sono ben poco entusiasti di combattere contro gli dèi immortali che, fin dall’età della ragione, hanno adorato e obbedito e ai quali hanno fatto sacrifici. In teoria, se rafforzo iti qualsiasi modo l’ascendente di Achille sul suo nuovo esercito, rendo un buon servizio a tutt’e due.

«Afferrami il braccio, figlio di Peleo» dico sottovoce. Quando Achille mi stringe il braccio, con la mano libera aziono il medaglione e tutt’e due scompariamo.

Elena ha detto d’incontrare lei e le altre donne a casa di Ettore, nel vestibolo della stanza del piccolo Scamandrio. Ci sono già stato, perciò non ho problema a visualizzare il luogo. Mi telequanto in una stanza vuota. Sono un po’ in anticipo: il cambio della guardia sulle mura di Ilio avverrà solo fra quattro o cinque minuti. La finestra del vestibolo permette a me e ad Achille di vedere che siamo nel cuore di Ilio. Il rumore di traffico nelle vie (carri tirati da buoi, cavalli con rumorosi finimenti, grida da mercato, lo scalpiccio di centinaia e centinaia di pedoni sull’acciottolato) entra dalla finestra aperta, come un sottofondo rassicurante.

Achille non pare impressionato dal teletrasporto quantico. Mi rendo conto che la sua vita è sempre stata piena di eventi magici. È stato allevato e istruito da un centauro, per l’amor del cielo! Ora, sapendo di essere proprio nel ventre della bestia nemica, a Ilio, si limita a posare la mano sull’elsa della spada, senza estrarre l’arma, e mi guarda come per chiedere: "E ora?".

La risposta al suo "e ora?" è il pianto di un uomo in preda a terribile dolore nella stanza adiacente, quella del bambino. Riconosco la voce: è Ettore, anche se non l’ho mai sentito gemere e piangere in questo modo. Si odono anche pianti e lamenti di donne. Ettore grida di nuovo, come per un dolore insopportabile.

Non ho alcuna fretta di entrare nella stanza, ma Achille agisce per me, avanza a passi decisi, mano sempre sull’elsa della spada sguainata per metà. Lo seguo.

Le mie amiche troiane — Elena, Ecuba, Laodice, Teanò e Andromaca — sono tutte nella stanza, ma neanche si girano, quando entriamo. C’è pure Ettore, in armatura, impolverato e insanguinato; non alza nemmeno gli occhi, quando il suo arci-nemico si ferma e osserva ciò su cui è concentrata l’attenzione dei presenti inorriditi.

La culla intagliata a mano è rovesciata. Schizzi di sangue sporcano il legno, il pavimento di marmo, la zanzariera. Il corpo del piccolo Scamandrio, amorevolmente detto Astianatte, che non ha ancora compiuto un anno, giace sul pavimento… a pezzi. La testa non c’è. Braccia e gambe sono state spiccate dal busto. Una manina grassoccia è ancora attaccata, ma l’altra è stata mozzata all’altezza del polso. I panni del bambino, con lo stemma della famiglia reale di Ettore delicatamente ricamato sul petto, sono intrisi di sangue. Lì accanto c’è il cadavere della balia che ho già visto sui bastioni e poi, pacificamente addormentata, in questa stessa stanza solo la notte scorsa. Si direbbe che sia stata straziata da un gigantesco felino: ma tende ancora le braccia verso la culla rovesciata, come se sia morta nel tentativo di proteggere il bambino.

Servi gemono e gridano sullo sfondo. Andromaca parla, stordita, ma con una calma che mette quasi paura: «Sono state Atena e Afrodite, mio signore e marito».

Ettore alza gli occhi: sotto l’elmo, il viso sconvolto e inorridito è un’orribile maschera che perde un filo di saliva dalla bocca aperta. Ha gli occhi sbarrati, cerchiati di rosso. «Atena e Afrodite?» ripete. «Com’è possibile?»

«Sono venuta alla porta, dalla mia camera, appena un’ora fa, quando ho sentito le due dee parlare qui dentro» dice Andromaca. «La stessa Pallade Atena mi ha riferito che il sacrificio del nostro amato Scamandrio è volontà di Zeus. "Un vitellino di un anno come vittima sacrificale" è la frase che ha usato la dea. Ho provato a discutere, ho pianto, ho supplicato, ma la dea Afrodite mi ha imposto il silenzio, dicendo che non si andrà contro la volontà di Zeus. Gli dèi, ha detto, sono dispiaciuti per come va la guerra e per il tuo fallimento nel bruciare le navi achee la notte scorsa. Considerano questo sacrificio come un avviso.» Indica il pavimento e il bambino macellato. «Ho mandato i servi più veloci a richiamarti dal campo di battaglia e ho chiesto a queste mie amiche di aiutarmi a sopportare il mio dolore in attesa del tuo arrivo, o marito. Fino a quel momento non siamo più entrate in questa stanza.»

Ettore, stravolto, si gira verso di noi, ma non sofferma lo sguardo sul silenzioso Achille. In quel momento non avrebbe nemmeno visto un cobra ai suoi piedi. È accecato dallo shock. Vede solo il cadavere di Scamandrio, privo di testa, insanguinato, la manina chiusa a pugno. Poi dice, in tono soffocato: «Andromaca, moglie adorata, come mai non giaci morta accanto alla balia, caduta come lei nel tentativo di salvare nostro figlio dall’ira degli immortali?».

Andromaca china il viso e piange in silenzio. «Atena mi ha bloccato sulla soglia, dietro un invisibile muro di forza, mentre il loro divino potere compiva quest’impresa» dice infine. Le lacrime le cadono sul corpetto della veste. Mi accorgo ora che ha la veste sporca di sangue: di sicuro si è inginocchiata e ha stretto al petto i resti del figlioletto macellato. Anche se non c’entra niente, ho l’impressione di guardare alla TV Jackie Kennedy in quel lontano giorno di novembre, quando ero ragazzo.

Ettore non si muove per abbracciare o consolare la moglie. I gemiti dei servi crescono di tono, ma l’eroe troiano rimane in silenzio per un minuto, poi alza il braccio muscoloso segnato di cicatrici, stringe il pugno e ringhia al soffitto: «Allora io vi sfido, dèi! D’ora in poi, Atena, Afrodite, Zeus, voi tutti, dèi, che fino a oggi ho servito e onorato anche a costo della vita, sarete miei nemici». Scuote il pugno.

«Ettore» dice Achille.

Tutti girano la testa. I servi gemono, atterriti. Elena si porta le mani alla bocca, in una perfetta simulazione di sorpresa. Ecuba lancia un grido.

Ettore sguaina la spada e ringhia, con espressione che pare quasi di sollievo. "Ecco uno su cui sfogarmi. Ecco uno da uccidere." Gli leggo in viso i pensieri.

Achille alza le mani, palme in fuori. «Ettore, fratello di dolore, sono venuto qui oggi per condividere la tua sofferenza e offrirti il mio braccio destro in battaglia.»

Ettore si era teso per assalire l’uccisore di uomini, ma ora si blocca, il viso una maschera di confusione.

«Stanotte» dice Achille, a mani sempre alzate per mostrare che non impugna armi «Pallade Atena è venuta nella mia tenda, nel campo dei mirmidoni, e ha ucciso il mio amico più caro, Patroclo… morto per mano sua, il cadavere portato sull’Olimpo per servire da pasto agli avvoltoi.»

Impugnando sempre la spada, Ettore chiede: «L’hai vista con i tuoi occhi?».

«Le ho parlato e ho visto tutto» risponde Achille. «Era la dea. Ha ucciso Patroclo allora così come ha ucciso tuo figlio oggi… e per le stesse ragioni. L’ha detto lei.»

Ettore abbassa lo sguardo sulla spada stretta in pugno, come se arma e braccio l’avessero tradito.

Achille viene avanti. Le donne si scostano per lasciarlo passare. L’acheo uccisore di uomini tende la destra, quasi a sfiorare la punta della spada.

«Nobile Ettore, nemico, fratello nel sangue» dice piano Achille «vuoi unirti a me in questa nuova guerra che dobbiamo combattere per vendicare la nostra perdita?»