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Ettore lascia cadere la spada; il bronzo risuona sul pavimento di marmo e l’elsa finisce in una pozza del sangue di Scamandrio. Il troiano non trova parole. Avanza come per assalire, poi stringe con forza il braccio di Achille (fosse stato il mio, l’avrebbe strappato dalla spalla) e continua a stringerlo come se vi si aggrappasse per non cadere.

Durante questa scena, lo ammetto, continuo a lanciare occhiate ad Andromaca che piange ancora in silenzio, mentre le altre facce mostrano stupore e meraviglia. "Sei stata tu?" penso, come se parlassi alla moglie di Ettore. "Hai fatto questo al tuo stesso figlio per ottenere che la guerra vada a modo tuo?"

Nel pensarlo, mi scosto da Andromaca, con un senso di repulsione, ma capisco che era l’unico modo. L’unico modo. Guardo i resti macellati di Astianatte, "Signore della città", il povero Scamandrio assassinato, e arretro di un altro passo. Dovessi vivere mille anni, diecimila, non capirò mai questa gente.

In quell’istante la vera dea Atena, accompagnata dalla mia Musa e dal dio Apollo, si telequanta nel vestibolo della stanza del bambino.

«Che cosa succede qui?» domanda Pallade Atena, alta due metri e mezzo e arrogante nell’atteggiamento, nel tono e nello sguardo.

La Musa indica me. «Eccolo!» grida.

Apollo tende l’arco d’argento.

46

ANELLO EQUATORIALE

La tana di Calibano era buia, umida e calda, nascosta fra le vecchie tubature e il sistema di fosse settiche sotto la città: una grotta naturale, riscaldata a temperature tropicali dalla decomposizione organica e popolata di zampettanti tritoni e piante di zucca. Galibano spezzò un velo di ghiaccio, nuotò in una conduttura interrata, emerse in una grotta lunga e stretta, appese a un gancio la rete con le prede, tagliò la rete, depose i tre umani storditi e passivi su tre rocce tre metri sopra una pozza gorgogliante e si sdraiò sopra un tubo ricoperto di felci lichenose. Mise i piedi a bagno nella fanghiglia, posò il mento sugli enormi pugni ed esaminò Savi, Harman e Daeman.

Quando il mostro li aveva catturati, Daeman si era pisciato addosso. La termotuta aveva assorbito l’umidità e si era asciugata quasi immediatamente, senza lasciare macchia; ma, sebbene terrorizzato, Daeman arrossì ripensandoci.

C’era aria, nella tana di Calibano, e gravità meno ridotta che non nella città vera e propria. La creatura strappò alle prede la maschera osmotica, con un gesto rapidissimo, muovendo il lungo braccio a ghermire con le dita munite di artigli, tanto che nessuno dei tre, nemmeno l’ultimo, ebbe il tempo di schivare o arretrare. Le rocce su cui i tre umani erano stati deposti sporgevano come viscide colonne dal nero stagno. L’aria tutt’intorno era densa e puzzava di fogna. Calibano la respirava come se fosse ambrosia e di tanto in tanto mostrava in un sorriso la chiostra di denti giallastri, come per schernire le prede. Parte del puzzo di pesce della grotta proveniva dalla creatura stessa.

Daeman aveva pensato che i calibani nel bacino del Mediterraneo fossero terrificanti, ma ora capiva che erano solo copie sbiadite di questo mostro spaventoso, il vero Calibano originale. Non era più grosso degli altri, ma infinitamente più ripugnante, con quel corpo tutto zanne e testicoli. A una prima occhiata, pareva goffo, sgraziato, ma aveva nuotato abbastanza agevolmente nella gelida aria rarefatta della città morta, usando come efficienti pagaie i grossi arti dalle dita palmate. Aveva afferrato con la bocca, di dimensioni superiori al normale, i capi della rete raccolta a sacco e li aveva saldamente tenuti fra i denti aguzzi, anche se Savi e gli altri due si dibattevano e scalciavano.

«Cosa vuoi da noi?» disse ora Savi, appollaiata come gli altri sulla colonna sporgente dallo stagno sotterraneo, mentre Calibano, comodamente disteso, li esaminava.

La vecchia, notò Daeman, aveva ricuperato la pistola, finita anch’essa nella rete: la stringeva in pugno, ma non prendeva la mira. "Spara!" pensò, rivolgendosi mentalmente a Savi. "Uccidi quel mostro!"

Calibano, stravaccato più in alto delle tre colonne di pietra, tanto vicino da inondarli con l’alito che puzzava della stessa decomposizione che ammorbava l’aria, sibilò: «Lui striscia giù a toccare e stuzzicare capelli e barba. E ora cade un fiore con un’ape dentro e ora un frutto da prendere al volo, mordere e sgranocchiare».

«È pazzo» bisbigliò Harman nella radio della termotuta.

Calibano sorrise. «Lui parla a se stesso, quanto vuole, toccando quell’altro, che la sua genitrice chiamò Dio. Perché parlare di Lui irrita… ah, mai Lui lo sapesse! E ora è tempo d’irritare.»

«Chi è "lui"?» chiese Savi in tono calmo, per una che si trovasse in una grotta puzzolente alla mercé di una belva. «Parli di te in terza persona, Calibano?»

«Lui è Lui» mormorò il mostro, steso bocconi sulla tubatura coperta di muschio «tranne quando Lui è Setebo!» Alla menzione del nome, si mise scompostamente a cavaldoni, allargò le gambe, si portò alla testa le braccia come per parare un colpo dall’alto. Una creatura piccola e squamosa corse via e sciaguattò nel fetido stagno. Intorno a loro si levarono vapori giallastri.

«Chi è Setebo?» chiese Harman, con un chiaro sforzo per mantenere la voce calma come Savi. «Setebo è il tuo padrone? Ti spiace chiamarlo, in modo che d lasci andare? Parleremo con lui.»

Calibano alzò la testa, con gli artigli grattò la tubatura, davanti e dietro, e latrò al tetto della grotta: «Setebo, Setebo e Setebo! Pensa, Lui abita nel gelo della Luna».

«La Luna?» disse Savi. «Questo tuo Setebo vive sulla Luna?»

«Pensa, Lui l’ha fatta, con il Sole per compagno» disse il mostro, facendo le fusa come un gatto. «Ma non le stelle; le stelle vennero in altro modo; Lui creò solo nubi, venti, meteore e cose simili; anche quest’isola e dò che qui vive e cresce e il sinuoso mare che la circonda e la delimita.»

«Ma di che cosa parla?» bisbigliò Daeman a Savi nella radio della termotuta. «È pazzo? Pare che parli di una sorta di dio.»

«Credo che parli proprio di un dio» rispose in un bisbiglio Savi. «Il suo. Ó forse di una creatura reale che lui considera un dio.»

«Chi o che cosa ha creato questo mostro?» bisbigliò Daeman. «Non Dio, di sicuro.»

A queste parole Calibano agitò e drizzò le orecchie, bizzarre e trasparenti. «Pensa, Sicorace, mia madre, mi creò, bocconcino mortale. Pensa, Prospero, il silenzioso servo della Quiete, rese Lui stesso servo del servo. Pensa, però, che Setebo, dalle molte mani come una seppia, facendo in modo che Lui stesso ispiri timore mediante ciò che fa, alza lo sguardo, primo, e percepisce di non potersi elevare a dò che è quieto e felice in vita, ma rende questo mondo un giocattolo per scimmiottare quello reale, queste buone cose per uguagliare quelle, come rose canine fanno uva.»

«Questo mondo giocattolo» ripeté Savi. «Ti riferisci alla città asteroide qui nell’anello-e, Calibano?»

Anziché rispondere, Calibano strisciò avanti come un gatto rivestito di scaglie pronto a spiccare il balzo, gli occhi gialli solo a un metro dalla loro testa. «Pensa, Lui stesso, conoscono Prospero?»

«Conosco Ariele, l’entità biosfera» disse Savi. «Ariele ci ha dato il permesso di andare ad Atlantide e di venire qui. Ci troviamo qui a buon diritto. Chiedi ad Ariele.»

Calibano si mise a ridere e si girò sulla schiena: solo gli artigli e i piedi palmati gli impedirono di rotolare giù dalla scivolosa tubatura e finire nella fetida acqua sottostante. «Pensa, Lui stesso come Prospero, tiene per il suo Ariele un uccello dalle lunghe zampe e dal becco a sacca, Lui ordina di andare a pesca e sputare subito i pesci; anche un ottuso animale marino che Lui prese al laccio, accecò e rese più o meno domestico, a cui tagliò le membrane fra le dita dei piedi palmati; e ora tiene chiuso il poveraccio in un buco della roccia e lo chiama… Calibano.»