Выбрать главу

In quel momento Odisseo rispondeva alle domande. Ada sapeva che di solito teneva un discorso di una novantina di minuti, un’ora dopo il sorgere del sole, e poi passeggiava da solo per ore; nell’ora prima del pranzo rispondeva alle domande, parlava di nuovo senza interruzioni nel pomeriggio e s’intratteneva a discorrere nelle lunghe ore di crepuscolo dopo il tramonto. Adesso c’era la riunione prima di pranzo.

«Maestro, perché dobbiamo scoprire chi è nostro padre? Non ha mai avuto importanza, prima.» Uno degli ultimi arrivati, un giovanotto, aveva alzato la mano e posto la domanda.

Quando Odisseo parlava, aveva notato Ada nel corso dell’ultimo mese, di solito teneva le mani protese, dritte, puntando le dita, tozze e forti, come per far apprezzare l’importanza del proprio punto di vista. Aveva braccia e gambe abbronzate, robuste. Per la prima volta Ada notò che una parte degli uomini con la barba, fra gli spettatori, cominciava ad abbronzarsi e a irrobustirsi. Odisseo aveva montato un percorso a ostacoli, funi e pali e pozze di fango, nella foresta sulla collina ed esigeva che chi lo ascoltava più di due volte si esercitasse almeno un’ora al giorno a percorrerlo. Molti uomini (e alcuni discepoli donne) avevano riso all’idea, la prima volta che lo avevano provato, ma adesso ogni giorno passavano ore a completarlo o a correre. Ada non sapeva che cosa pensare.

«Se non conosci tuo padre» rispose Odisseo, con voce bassa, calma, ferma, che pareva giungere sempre tanto lontano quant’era necessario «come puoi conoscere te stesso? Io sono Odisseo, figlio di Laerte. Mio padre è un sovrano, ma anche un uomo della terra. Quando lo vidi per l’ultima volta, il vecchio era in ginocchio a piantare un albero dove un esemplare gigantesco era caduto, tagliato da lui stesso, alla fine, perché colpito da un fulmine. Se non conosco mio padre e suo padre prima di lui e ciò che valgono quegli uomini, ciò per cui sono vissuti e per cui erano disposti a morire, come posso conoscere me stesso?»

«Parlaci ancora di areté» disse un uomo in prima fila. Ada riconobbe in lui Petyr, uno dei primi visitatori. Petyr non era più un ragazzo (secondo Ada, era già nella quarta Ventina) ma aveva una barba ormai folta quasi come quella di Odisseo. Ada era sicura che non avesse più lasciato villa Ardis, dopo avere sentito parlare Odisseo, il secondo o terzo giorno, quando i visitatori si contavano sulle dita di due mani.

«Areté è semplicemente la capacità di eccellere in tutte le cose e l’impegno per riuscirvi» disse Odisseo. «Areté significa offrire tutte le azioni come una sorta di sacramento all’eccellenza, di dedicare la propria vita a trovare l’eccellenza, a riconoscerla quando si presenta e a raggiungerla prima della morte.»

Uno dei nuovi, dieci file più su lungo il pendio, un uomo massiccio che a Ada ricordò un poco Daeman, si mise a ridere e chiese: «Come puoi raggiungere l’eccellenza in tutte le cose, Maestro? Perché dovresti volerlo? Parrebbe terribilmente faticoso». Si guardò intorno, in attesa della risata generale, ma gli altri lo fissarono in silenzio e tornarono a guardare Odisseo.

Il greco sorrise (un lampo di denti bianchi e forti, contro la pelle abbronzata e la corta barba grigia) e disse: «Non si può arrivare all’eccellenza in tutte le cose, amico mio, ma bisogna provarci. E come si potrebbe non volerlo?».

«Ma ci sono tante di quelle cose da fare» rise l’altro. «Non ci si può allenare in tutte. Bisogna fare una scelta e concentrarsi su quelle importanti.» Strinse la giovane donna accanto a lui, chiaramente la sua compagna, e lei rise forte, ma fu l’unica a farlo.

«Sì» disse Odisseo «ma tu insulti tutte quelle azioni nelle quali non onori areté. Mangiare? Mangia come se fosse il tuo ultimo pasto. Prepara il cibo come se non ce ne fosse più! Sacrificare agli dèi? Devi compiere ogni sacrificio come se la vita della tua famiglia dipendesse dalla tua energia e devozione e concentrazione. Amare? Sì, ama come se fosse la cosa più importante al mondo, ma rendila solo una stella nella costellazione di eccellenza che è areté.»

«Non capisco l’agon, Odisseo» disse una giovane donna nella terza fila. Ada sapeva che si chiamava Peaen. Era intelligente, scettica su tutto, ma si tratteneva lì da quattro giorni.

«L’agon è semplicemente la comparazione di tutte le cose simili, una con l’altra» spiegò Odisseo a bassa voce, ma chiaramente «e giudicare una cosa come uguale, superiore o inferiore rispetto a un’altra. Tutte le cose dell’universo partecipano alla dinamica dell’agon.» Indicò l’albero morto su cui sedeva. «Quest’albero era superiore, inferiore o solo uguale a quello là?» Indicò un albero alto e rigoglioso sulla collina, al limitare della foresta. All’ombra dei rami c’erano dei voynix. I voynix non si avvicinavano mai a Odisseo.

«Quell’albero è vivo» replicò a voce alta il tipo massiccio che era intervenuto poco prima. «Non può non essere superiore a un albero morto.»

«Tutte le cose viventi sono dunque superiori a quelle morte?» replicò Odisseo. «Molti di voi hanno seguito il dramma del lino e assistito alla battaglia che vi si svolge. Un mercante di letame vivo oggi è migliore di Achille, anche se Achille oggi è morto?»

«Così si paragonano cose dissimili» obiettò una donna.

«No. Tutt’e due sono uomini. Tutt’e due nacquero. Tutt’e due moriranno. Poco importa se uno respira ancora e l’altro risiede solo nelle ombre dell’Ade. Bisogna poter paragonare gli uomini, o le donne, e per questo dobbiamo conoscere nostro padre, nostra madre. La nostra storia. Le nostre storie.»

«Be’, l’albero su cui siedi, Maestro, è sempre morto» disse Petyr. Stavolta varie persone, su e giù per il pendio, risero.

Odisseo si unì alle risate. Indicò un passero che si era appena posato su uno dei pochi rami che lui non aveva tagliato dall’albero caduto. «Non solo è sempre morto» disse «è morto di fresco. Ma già la sua utilità, in termini di agon, ha superato l’utilità di quell’albero vivo lassù. Per quel passero. Per gli insetti che in questo stesso momento scavano nella corteccia di questo gigante caduto. Per topi e arvicole e animali più grandi che presto verranno ad abitare questo albero morto.»

«Chi sarà allora il giudice finale dell’agon?» chiese un uomo più anziano, serio, nella quinta fila. «Uccelli, insetti o uomini?»

«Tutti» rispose Odisseo. «Ciascuno a turno. Ma l’unico giudice che conti sei tu.»

«Non è arroganza?» obiettò una donna che Ada riconobbe come un’amica di sua madre. «Chi ci ha eletto giudici? Chi ci ha dato il diritto di giudicare?»

«L’universo vi ha eletti, mediante quindici miliardi di anni di evoluzione» disse Odisseo. «Vi ha dato occhi con cui vedere. Mani con cui reggere e soppesare. Un cuore con cui sentire. Una mente con cui apprendere le regole del giudizio. E un’immaginazione con cui tenere conto del giudizio di uccelli e d’insetti e perfino di altri alberi in questa faccenda. E dovete accostarvi a questo giudizio guidati dall’areté… Credetemi, insetti e uccelli e alberi già lo fanno. Non hanno tempo per la mediocrità, nel loro mondo. Non si preoccupano se sia arrogante giudicare nella scelta di un compagno, di un nemico… o di una casa.» Odisseo indicò il punto dove il passero era saltato in un buco del tronco ed era scomparso nella cavità dell’albero caduto.

«Maestro» disse un giovanotto in fondo alla folla «perché ci chiedi di fare la lotta almeno una volta al giorno?»

Ada aveva ascoltato abbastanza. Terminò la bevanda fredda e tornò alla villa, fermandosi nella veranda a guardare l’ampio prato erboso dove decine di visitatori — anzi, discepoli — passeggiavano e parlavano tra loro. I lembi di seta delle tende si agitavano nella tiepida brezza. Servitori passavano da un visitatore all’altro, ma pochi ospiti accettavano i cibi o le bevande offerti. Odisseo aveva preteso che coloro che si fermavano ad ascoltarlo più di una volta non permettessero ai servitori di lavorare per loro né ai voynix di servirli. All’inizio molti se n’erano andati per non sottostare a questa condizione, ma un numero sempre maggiore restava.