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Ada guardò il cielo, notò i pallidi cerchi dei due anelli orbitanti e pensò a Harman. Si era così arrabbiata con lui, quando aveva parlato di donne che sceglievano fra lo sperma degli uomini mesi o anni o decenni dopo il rapporto (di quell’argomento non si discuteva, semplicemente, tranne che fra madri e figlie; e anche in quel caso, solo una volta). E quella sciocchezza sul fatto che c’entrassero i geni di una falena, come se le donne umane non avessero scelto in quel modo, da tempo immemorabile, il padre del figlio loro assegnato. Harman era stato davvero… disgustoso… a sollevare l’argomento.

Tuttavia, ciò che l’aveva sconcertata maggiormente era stata la dichiarazione del suo nuovo amante di voler essere il padre del figlio di Ada, non solo quello il cui seme sarebbe stato scelto in un futuro più o meno lontano, ma di voler essere presente, riconosciuto come padre; e lei si era infuriata al punto da lasciarlo partire per quell’innocua avventura con Savi e Daeman, senza nemmeno una parola gentile. Anzi, a dire il vero, con parole e occhiate ostili.

Si toccò il ventre. Lo spedale non le aveva notificato tramite i servitori che era giunto per lei il momento di procreare; ma, d’altro canto, lei non aveva chiesto d’essere messa in lista. Era felice di non dover scegliere a breve scadenza fra i — come li aveva chiamati, Harman? — fra i pacchetti di sperma. Ma pensò a Harman, ai suoi occhi intelligenti, amorevoli, al suo tocco gentile e fermo, al suo corpo anziano ma appassionato, e si toccò di nuovo il ventre.

«Aman» mormorò a se stessa. «Figlio di Harman e di Ada.»

Scosse la testa. Le ciance di Odisseo, nelle ultime settimane, le avevano riempito la testa di sciocchezze. Il giorno prima, seccata, aveva atteso che le decine e decine di discepoli, sceso il buio, si allontanassero verso il padiglione fax o le tende (più verso le tende che non verso il nodo fax) e aveva chiesto bruscamente a Odisseo per quanto tempo ancora si sarebbe trattenuto a villa Ardis.

Il vecchio le aveva sorriso, quasi con tristezza. «Non molto, mia cara.»

«Una settimana?» aveva insistito Ada. «Un mese? Un anno?»

«Non così tanto» aveva risposto Odisseo. «Solo finché il cielo non comincerà a cadere, Ada. Solo finché nuovi mondi non compariranno nel tuo cortile.»

Furiosa per la sua impertinenza, tentata di ordinare ai servitori di sfrattare immediatamente l’irsuto barbaro, Ada era corsa in camera da letto, l’ultimo rifugio privato che le era rimasto a villa Ardis, divenuta ormai un luogo pubblico, e vi si era distesa, sveglia, infuriata con Harman, rattristata senza Harman, preoccupata per Harman, anziché ordinare ai servitori di liberarla del vecchio Odisseo.

Ora si girò per entrare in casa, ma con la coda dell’occhio notò un bizzarro movimento e tornò a voltarsi. Sulle prime pensò si trattasse solo della rotazione degli anelli, come sempre; poi guardò meglio e vide un’altra striatura, come un diamante che incidesse una linea nel perfetto vetro azzurro del cielo. Poi un’altra incisione, più larga, più brillante. Poi ancora un’altra, così luminosa e così netta da mostrare con chiarezza le fiamme che si allungavano in coda alla banda di luce. Pochi secondi più tardi, tre sordi bang sonici echeggiarono nel prato e indussero i discepoli a fermarsi e a guardare in alto; perfino i servitori e i voynix si immobilizzarono.

Ada udì grida e urla dalla collina dietro la villa. La gente sul prato indicava il cielo.

Ora decine di linee lo deturpavano: vivide linee fiammeggianti che squarciavano e intersecavano la volta celeste, cadendo da ovest a est, alcune con scie colorate, altre con rombi e rimbombi terrificanti.

Il cielo cadeva.

48

ILIO E OLIMPO

La guerra finale comincia qui, nella stanza di un bambino assassinato.

Gli dèi si saranno telequantati dall’Olimpo già migliaia di volte per parlare ai mortali in questo modo: Atena, arrogante nella sua divinità, Apollo, sicuro nel suo potere (la mia Musa probabilmente è con loro per identificare quella canaglia di scoliaste, Hockenberry). Ma oggi, anziché incontrare deferenza e stupore reverenziale, anziché conversare con sciocchi mortali ansiosi di farsi blandire perché trovino sistemi più interessanti d’uccidersi l’un l’altro, oggi sono assaliti a vista.

Apollo alza l’arco nella mia direzione, perché la Musa mi indica e dice: «Eccolo lì!». Ma prima che il dio possa incoccare un’argentea freccia, Ettore balza avanti, brandisce la spada, taglia in due l’arco, si avvicina e infila la lama nel ventre di Apollo.

«Fermo!» grida Atena e attiva un campo di forza, ma troppo tardi. Il piè veloce Achille è già all’interno del campo e con un solo colpo possente squarcia la dea dalla spalla all’anca.

Atena urla e il rombo è così forte che molti dei mortali in quella stanza, me compreso, cadono in ginocchio per il dolore, mani sulle orecchie. Non Ettore. Non Achille. I due sono di sicuro sordi a qualsiasi cosa se non al ruggito interno della propria ira.

Apollo grida a gran voce un avvertimento e solleva il braccio destro (o per tenere a bada Ettore o per scagliare un fulmine divino) ma Ettore non aspetta di scoprire le intenzioni del dio. Muove la pesante spada in un colpo di rovescio a due mani che mi ricorda André Agassi nel suo periodo migliore e taglia, in uno schizzo di icore dorato, il braccio destro del dio.

Per la seconda volta in vita mia vedo un dio contorcersi, nel dolore e cambiare forma… perdere sembianza umana deiforme e diventare un mulinello di tenebre. Da quelle tenebre si alza un mugghio che fa scappare dalla stanza i servitori e mi fa accucciare. Le cinque donne troiane — Andromaca, Laodice, Teanò, Ecuba ed Elena — estraggono dalla veste il pugnale e si avventano sulla Musa.

Atena, la cui forma umana è tremolante e instabile, si fissa il seno squarciato e il ventre sanguinante, poi alza la destra e lancia un raggio di energia coerente che avrebbe dovuto ridurre in plasma il cranio di Achille, ma l’acheo lo schiva con rapidità sovrumana (il suo DNA è arricchito con nanocellule adattate su misura dagli dèi stessi) e vibra un fendente alle gambe della dea, mentre la parete esplode in fiamme. Atena levita (si solleva dal pavimento e rimane librata) ma non prima che la spada di Achille attraversi muscolo e osso divini e lasci penzolare, quasi staccata, la gamba sinistra della dea.

Stavolta l’urlo è troppo forte da sopportare e per un minuto perdo conoscenza, ma faccio in tempo a vedere che la mia Musa, il terrore dei miei giorni, è a tal punto in preda al panico da fuggire di corsa dalla stanza, inseguita da cinque donne troiane col pugnale snudato, dimenticando che le basterebbe telequantarsi.

Mi riprendo qualche secondo dopo, perché Achille mi scuote.

«Sono fuggiti» ringhia. «Quei vigliacchi mangiamerda sono fuggiti sull’Olimpo. Portaci lassù, Hockenberry. Mi alza con una sola mano, afferrandomi per la cinghia che mi tiene a posto la corazza, poi mi scuote a braccio teso e mi mette sotto il mento la punta della spada sporca di sangue divino. «Subito!» ringhia.

So che opporre resistenza significherebbe morire (Achille ha occhi da folle, pupille contratte come due nere capocchie di spillo) ma in quel momento Ettore gli prende il braccio e lo spinge in basso, finché con i piedi non tocco di nuovo il pavimento. Achille mi lascia e si gira verso l’alleato — almeno per il momento — troiano e per un istante sono sicuro che il Fato si riaffermerà, che il piè veloce Achille ucciderà Ettore qui e subito.