«Compagno» dice Ettore, mostrando la palma vuota. «Compagno nemico degli dèi spietati!»
Achille si blocca.
«Ascoltami!» dice Ettore, brusco, ora feldmaresciallo fino all’osso. «Il nostro comune desiderio è di seguire sull’Olimpo i due dèi già feriti e lassù morire in glorioso combattimento, nel tentativo di rovesciare Zeus stesso.»
L’espressione folle di Achille non cambia. Gli si vede quasi solo il bianco degli occhi. Però ascolta. A malapena.
«Ma la nostra morte gloriosa adesso significherebbe la distruzione dei nostri popoli» continua Ettore. «Per vendicarci completamente dobbiamo chiamare al nostro fianco i nostri eserciti, cingere d’assedio l’Olimpo e distruggere tutti gli dèi. Achille, pensa al tuo popolo!»
Achille batte le palpebre e si rivolge a me. «Tu!» dice, brusco. «Con la tua magia puoi riportarmi al campo acheo?»
«Sì» rispondo, scosso. Vedo Elena e le altre tornare nella stanza della morte, ma non hanno sui pugnali macchie di dorato sangue divino. Evidentemente la Musa è riuscita a mettersi in salvo.
Achille si rivolge a Ettore. «Parla ai tuoi uomini. Uccidi chiunque si opponga alla tua volontà, come farò io con i miei argivi. Ci incontriamo fra tre ore alla base di quella ripida cresta che si trova fuori di Ilio, sai quale intendo. Voi la chiamate Boschetto sacro. Gli dèi e noi achei la riteniamo il tumulo tombale dell’amazzone Mirina.»
«Conosco il posto» dice Ettore. «Porta con te a questo incontro una decina dei tuoi generali più fidati, Achille, ma lascia l’esercito a mezza lega da lì, finché non saremo d’accordo sulla strategia.»
Achille snuda i denti in quello che potrebbe essere un ringhio o un sorriso. «Non ti fidi di me, figlio di Priamo?»
«In questo momento i nostri cuori sono uniti nell’ira infinita e in un dolore sconfinato» dice Ettore. «Tu per Patroclo, io per mio figlio. Siamo fratelli nella pazzia, in questo momento; ma tre ore sono tempo sufficiente a raffreddare perfino i fuochi della causa comune. E tu hai con te il migliore stratega del mondo, Odisseo, di cui tutti i troiani temono l’abilità e l’astuzia. Se il figlio di Laerte ti consiglierà il tradimento, come potrò saperlo?»
Achille scuote la testa, spazientito. «Due ore, allora. Porterò i miei generali più degni di fede. E ogni acheo che non mi seguirà in guerra contro gli dèi oggi sarà ombra nell’Ade prima di notte.»
Gira le spalle a Ettore e mi afferra per il braccio, con tale forza che quasi grido di dolore. «Portami al mio accampamento, Hockenberry.»
Impacciato, cerco il medaglione TQ.
Il vento ha spinto Orphu, librato a mezz’aria, per cinquecento metri lungo la spiaggia, nei frangenti tra due lunghe nere navi achee; devo lasciare Achille e i suoi condottieri per ricuperare il moravec. Grazie alla bardatura di levitazione, non c’è attrito; mi faccio prestare una fune dai greci lì fermi a guardare, la lego intorno a una delle cinghie e trascino fuori dell’acqua il guscio butterato e lo riporto sulla spiaggia, sotto gli occhi stupiti degli eroi dell’Iliade.
È chiaro che nel campo acheo si è discusso parecchio. Diomede dice ad Achille che metà degli uomini prepara le navi per salpare, mentre l’altra metà si prepara a morire. L’idea di resistere agli dèi (altro che attaccarli!) è non solo follia, ma bestemmia per tutti quelli che hanno visto gli dèi in azione. Nella riunione di consiglio, Diomede stesso va vicino a sfidare Achille.
Sfoggiando la raffinata retorica per cui va famoso, Achille ricorda a tutti d’avere combattuto in singoiar tenzone contro Agamennone e Menelao e d’avere assunto legittimamente il comando degli eserciti achei. Ricorda loro che Patroclo è stato ucciso. Loda il loro coraggio e la loro fedeltà. Dice che il bottino di Ilio è niente, a paragone delle ricchezze che avranno quando metteranno a sacco l’Olimpo. Ricorda loro che può uccidere e ucciderà chiunque opponga resistenza. Tutto sommato è un discorso convincente, ma non un’allegra riunione di consiglio.
Tutto è andato a rotoli. Il mio piano prevedeva che gli eroi sfidassero gli dèi e che la guerra terminasse, che gli achei tornassero a casa e che i troiani riprendessero la solita vita e riaprissero a viaggiatori e mercanti le grandi porte della città turrita. Avevo immaginato la "Città in pace", come è illustrata quasi al centro dello scudo di Achille. E avevo pensato… sperato… che Achille ed Ettore si sacrificassero umilmente per il bene comune, non che coinvolgessero nella loro battaglia decine di decine o centinaia di migliaia di altri guerrieri.
Anche il piano di condurre sull’Olimpo Ettore e Achille per la loro fatale aristeia è destinato a fallire. Contavo di portare i due eroi uno alla volta e che gli dèi non si rendessero conto del pericolo finché non l’avessero visto discendere su di loro come una fulminante tempesta greca e troiana. Ma l’attacco ad Apollo e Atena nella stanza di Scamandrio ci ha fatto perdere anche questo piccolo elemento di sorpresa.
E ora?
Controllo l’orologio. Avevo promesso al piccolo robot di andarlo a prendere. Ma ormai la Grande Sala degli Dèi e tutto l’Olimpo saranno di sicuro simili a un nido di calabroni infuriati. Le probabilità di telequantarmi lì e di venirne via senza che nessuno mi veda sembrano assai prossime a zero. Chissà che cosa faranno, Ettore e Achille, se non ritorno qui.
Problema loro, decido. Faccio per tirarmi sulla testa l’Elmo di Ade, ricordo d’averlo prestato a Mahnmut, sospiro, visualizzo le coordinate per il lato ovest del lago della caldera sulla cima dell’Olimpo e mi telequanto.
È davvero un nido di calabroni! Il cielo è pieno di cocchi che saettano avanti e indietro sopra il lago. Vedo decine e decine di dèi in piedi lungo la costa: alcuni segnano a dito, alcuni scagliano nel lago lance di pura energia. L’acqua ribolle per chilometri, nella caldera. Altri dèi gridano con voce amplificata, dichiarano che Zeus ordina a tutti di radunarsi nella Grande Sala. Ancora nessuno si è accorto di me, c’è troppa confusione, ma è solo questione di un minuto, forse meno, prima che qualcuno individui un non-dio nel loro esclusivo country club.
All’improvviso l’acqua ribolle solo a qualche metro da me e lascia emergere una sagoma vaga, visibile solo perché le gocce grondano da una superficie invisibile. Poi il piccolo robot scuro si materializza, si toglie l’Elmo di Ade e me lo restituisce. «Sarebbe meglio se ce ne andassimo in fretta» dice nella mia lingua. Prendo in silenzio l’elmo e il robot non ritrae il braccio, perché lo afferri e includa anche lui nel campo TQ. Gli stringo il braccio e con un grido lo lascio subito. Il metallo o la plastica o quale che sia la sostanza della sua epidermide è bollente. La palma della mia mano è già rossa e cominciano a formarsi delle vesciche.
Due cocchi scendono in picchiata dalla nostra parte. Balenano fulmini. L’aria puzza di ozono.
Prendo per la spalla il robot e aziono il medaglione; so che nessuno di noi ne uscirà vivo, ma dico a me stesso che se non altro, come avevo promesso, sono tornato a prendere la piccola macchina intelligente. Questo, almeno, l’ho fatto.
49
ANELLO EQUATORIALE
Per le prime due settimane Daeman e Harman vissero di lucertole nella pozza inquinata. Persero tanto di quel peso che le termotute si ridussero di due misure per restare a contatto della pelle.
Erano rimasti sconvolti per la morte di Savi. Quando Calibano (che non aveva abbandonato il cadavere della loro amica) se n’era andato, per un minuto buono si erano limitati a stare seduti, intontiti, sulla colonna di roccia, tre metri sopra la fetida acqua. Daeman aveva in mente un unico pensiero: "Ora Calibano torna a prenderci. Ora Calibano torna a prenderci". Poi Harman aveva rotto l’incantesimo: si era tuffato, piedi in avanti, nell’acqua puzzolente ed era sparito.
Daeman avrebbe ululato di terrore, se ne avesse avuto la forza, ma era riuscito solo a fissare l’increspata pellicola d’impurità: Harman l’aveva abbandonato. Dopo quelli che gli erano parsi interminabili minuti, Harman era emerso, ansimando e sputacchiando e tenendo in mano tre oggetti: due maschere osmotiche e la pistola di Savi. Si era issato sul piano di roccia più basso e Daeman, finalmente libero dalla paralisi, era sceso accanto a lui.