«È profonda solo tre metri» aveva ansimato Harman. «Altrimenti non avrei mai trovato questa roba.» Aveva dato a Daeman una maschera osmotica e si era messo l’altra, sopra il cappuccio della termotuta, senza assicurarsela sul viso. Poi aveva soppesato la pistola.
«Funziona?» aveva chiesto Daeman, con voce tremante. Aveva paura di stare così vicino all’acqua, era sicuro che da un momento all’altro sarebbe spuntato il lungo braccio di Calibano che l’avrebbe tirato di sotto. Continuava a tornargli in mente il ripugnante schiocco delle fauci del mostro che squarciavano la gola di Savi e le spezzavano la spina dorsale.
«C’è solo un modo per saperlo» aveva mormorato Harman. Anche a lui tremava la voce: Daeman non avrebbe saputo dire se per il bagno nell’acqua gelida o per il terrore.
Harman aveva puntato l’arma come aveva visto fare a Savi, infilato il dito nel ponticello del grilletto e premuto. Un cerchio d’acqua sotto la parete più lontana si era sollevato in una fontana irregolare alta un metro, mentre centinaia di dardi fendevano la superficie.
«Sì!» aveva gridato Daeman, e la voce era echeggiata nella piccola caverna. «’Fanculo Calibano!»
«Dov’è lo zaino di Savi?» aveva chiesto sottovoce Harman.
Daeman aveva indicato dov’era caduto, dietro la colonna di roccia su cui stava la vecchia. Tutti e due erano strisciati fino allo zaino e avevano frugato dentro. La torcia elettrica funzionava ancora. C’erano altri tre caricatori per la pistola, ciascuno con sette pacchetti di plastica con i dardi. Harman aveva scoperto come staccare il caricatore già inserito e aveva contato le cariche che vi restavano. Due.
«Credi che lui… che il mostro… sia morto?» aveva bisbigliato Daeman, girando la testa a dare un’occhiata a entrambi i punti dove il corso d’acqua sotterraneo entrava nella piccola caverna. L’ambiente roccioso era illuminato solo da luminescenze di funghi. «Savi l’ha colpito in pieno petto da neanche un metro» aveva proseguito Daeman. «Forse è morto.»
«No» aveva detto Harman. «Calibano non è morto. Mettiti la maschera. Dobbiamo trovare un modo per uscire di qui.»
Il corso d’acqua sotterraneo passava di grotta in grotta, poi di grotta in caverna, ognuna più vasta della precedente. La parte superiore dell’asteroide, appena sotto la città di cristallo, pareva un alveare di grotte e di tubature. Nella seconda grotta in cui emersero, Harman e Daeman trovarono schizzi di sangue sulle rocce.
«Di Savi o di Calibano?» bisbigliò Daeman.
Harman si strinse nelle spalle. «Forse di tutt’e due» rispose. Mosse il raggio della torcia elettrica sulla pietra piatta che scompariva nell’ombra dieci metri a destra e a sinistra del puzzolente corso d’acqua. Vide casse toraciche, tibie, ossa pelviche e un teschio che pareva fissarlo.
«Oddio, Savi» ansimò Daeman. Si tirò in fretta sul viso la maschera osmotica, pronto a saltare di nuovo in acqua.
Harman lo fermò, posandogli con forza la mano sulla spalla. «Non credo sia lei» disse. Si avvicinò alle ossa e mosse il raggio della torcia da una parte e dall’altra. Altri resti ridotti a scheletro erano sparpagliati su tutti i piani di roccia ai lati del corso d’acqua. «Sono resti vecchi» disse Harman. «Di mesi o di anni, forse decine di anni.» Raccolse due costole e le tenne sotto la luce: ossa di un bianco sorprendente, contro il guanto azzurro della termotuta.
Daeman vide i segni dei denti che le avevano rosicchiate. Cominciò di nuovo a tremare. «Mi spiace» si scusò in un bisbiglio.
Harman scosse la testa. «Siamo tutti e due sotto shock e affamati. Da più di due giorni non mangiamo quasi niente.» Si distese carponi su una roccia a bordo d’acqua.
«Forse nella città c’è cibo…» cominciò Daeman.
Harman infilò di scatto la mano neE’acqua. Qualcosa si dibatté furiosamente. Daeman saltò indietro, sicuro che Calibano fosse tornato, ma quando girò la testa a guardare, Harman stringeva fra le mani una lucertola albina. Non priva d’occhi, come quella che aveva urtato la colonna e decretato la fine di Savi: questa aveva occhi come grani rosa.
«Vuoi scherzare» disse Daeman.
«No.»
«Non possiamo sprecare dardi per ammazzare questa…»
Harman afferrò saldamente la lucertola all’altezza delle zampe posteriori e la sbatté contro una pietra fino a farle schizzare fuori il cervello.
Daeman sollevò la maschera osmotica, sicuro di vomitare di nuovo. Non vomitò, solo conati e borbottii di stomaco.
«Peccato che Savi non avesse un coltello nello zaino» si lamentò Harman. «Ricordi quel bel coltello da spellare che Odisseo portava sempre con sé, quando eravamo al ponte del Golden Gate? Ora ci farebbe proprio comodo.»
Daeman, tanto inorridito da non provare nemmeno nausea, fissò Harman che scheggiava una pietra grossa come un pugno, trovata fra le ossa umane. Ottenuta una rozza punta, mozzò la testa alla lucertola e cominciò a spellarla.
«Non posso mangiare quella roba» ansimò Daeman.
«Hai detto tu stesso che in città non c’è cibo» replicò Harman, senza smettere di spellare la lucertola. Un lavoro, vide Daeman, abbastanza incruento.
«Come la cuciniamo?»
«Non credo che potremo cucinarla. Savi non ha portato fiammiferi, qui non c’è materiale combustibile e nella città non c’è aria.» Strappò un pezzo di carne rossa dalla coscia superiore della lucertola, la dondolò per un minuto nella luce della torcia e poi se la cacciò in bocca. Raccolse con la bottiglia di Savi un po’ d’acqua dal torrente e mandò giù il boccone.
«Com’è?» chiese Daeman, anche se avrebbe potuto rispondersi da solo, vedendo l’espressione di Harman.
Quest’ultimo strappò una striscia più sottile e la porse a Daeman. Passarono due minuti buoni, prima che Daeman si mettesse in bocca il pezzetto di carne e lo masticasse. Non lo vomitò. Sapeva, pensò, di muco salato e di pesce. Sentì lo stomaco chiederne ancora.
Harman gli porse la torcia. «Stenditi sul bordo dell’acqua. La luce attira le lucertole.»
"E Calibano?" pensò Daeman, ma si mise carponi sul bordo dell’acqua e con la sinistra illuminò la profonda pozza, mentre con la destra si preparò ad afferrare le bianche lucertole non appena si fossero avvicinate. «Diventeremo come Calibano» borbottò sottovoce. Sentiva Harman strappare pezzi di carne e masticare nella luminescenza alle sue spalle.
«No» disse Harman, tra un boccone e l’altro. «Non diventeremo come lui.»
Emersero dalle caverne due settimane più tardi: due uomini pallidi, barbuti, emaciati, con occhi sbarrati. Risalirono a nuoto la tubatura giusta, spezzarono il sottile strato di ghiaccio nello stagno in alto e galleggiarono nella relativa luminosità della città di cristallo.
Stranamente, fu proprio Daeman a insistere per salire.
«Qua sotto è più facile difendersi da Calibano» obiettò Harman. Con un pezzo dello zaino di Savi si era fatto una sorta di fondina per la pistola. Dormivano a turno contro una parete della grotta e, mentre uno sonnecchiava, l’altro montava la guardia, con la torcia e la pistola.
«Non importa» disse Daeman. «Dobbiamo andare via da questo sasso.»
«Forse Calibano è moribondo per le ferite» disse Harman.
«O forse è già guarito» replicò Daeman. I due si assomigliavano di più, ora che Daeman era dimagrito e che tutt’e due avevano la barba lunga. Quella di Daeman era un po’ più folta e più scura di quella di Harman. «Non importa» ripeté Daeman. «Dobbiamo trovare il modo di andarcene.»