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Mi giro, intontito; batto le palpebre per togliermi dagli occhi il sudore e vedo Elena. È sporca di polvere, ha la veste insanguinata, i capelli arruffati. Non ho mai visto spettacolo più bello. Mi abbraccia e io la stringo al petto.

Si scosta. «Sei ferito gravemente, Hock-en-bear-eeee?»

«Cosa?»

«Le tue ferite sono gravi?»

«Non sono ferito» dico. Lei mi tocca il viso e mi mostra le dita insanguinate. Mi porto la mano alla tempia (ho un taglio profondo, lì, e un altro all’attaccatura dei capelli) vedo che è insanguinata e mi rendo conto che era il sangue, non il sudore, ad annebbiarmi la vista. «Non è niente» dico. Indico le macerie fumanti. «Ettore? Andromaca?»

«Non erano in casa, Hock-en-bear-eeee» grida Elena, per superare il frastuono e la confusione. «Ettore ha mandato la famiglia nel tempio di Atena. Il sotterraneo è sicuro.»

Guardo tra il fumo e vedo l’alto tetto del tempio ancora in piedi. "Ma certo" penso. "Gli dèi non bombarderanno i propri templi. Troppo fottuto egocentrismo."

«Teanò è morta» dice Elena. «Anche Laodice.»

Ripeto i nomi, intontito. La sacerdotessa di Atena, la donna che qualche ora fa mi puntava alle palle la gelida lama di un pugnale e la figlia di Priamo. Due delle mie cinque donne troiane sono già morte. E il bombardamento è appena iniziato.

Mi giro di scatto, in preda al panico. Il rumore non quadra. Non ci sono esplosioni.

Uomini e donne nelle vie indicano il cielo e gridano. Quattro dei cinque cocchi sono scomparsi e ora il quinto, il cocchio bombardiere di Ares, credo, vola a nord e sparisce di colpo: si è telequantato sull’Olimpo. Tutti questi danni (guardo intorno gli edifici rasi al suolo, i crateri fumanti, i corpi insanguinati nelle vie) per l’attacco di un solo dio con un solo arco e alcune frecce di Apollo. Cosa verrà dopo? Un attacco biologico? Il Fulgido arciere (che al momento forse è tornato a curarsi nelle vasche di guarigione) è noto per scatenare epidemie fra le genti della Terra.

Stringo il medaglione. «Dov’è Ettore?» chiedo a Elena. «Devo trovarlo.»

«È uscito dalle porte Scee, con Paride, Enea e suo fratello Deifobo» risponde Elena. «Vuole rintracciare Achille, prima che in tutti si diffonda lo scoramento.»

«Devo trovarlo» ripeto. Mi giro verso la porta principale, ma Elena mi tira e mi costringe a voltarmi.

«Hock-en-bear-eeee» dice; mi attira a sé e mi bacia, lì nella via, tra gente che si urta e che grida. Quando stacca le labbra dalle mie, riesco solo a battere le palpebre come uno stupido, ancora chino verso di lei. «Hock-en-bear-eeee» ripete Elena. «Se devi morire, muori bene.»

Volta le spalle e risale con passo deciso la via, senza girarsi neppure una volta.

53

ANELLO EQUATORIALE

Daeman non rimase sorpreso nel vedere che l’ologramma di Prospero si alzava e camminava. Il mago prese il bastone e andò lentamente alla cupola finestra della stanza. Quando levò il viso a guardare passare le stelle, la pallida luce mise in evidenza le rughe sulla gola e sulle guance. Tutto quel furibondo attacco di vecchiaia negli ultimi giorni nauseò Daeman… e lo nauseò anche di più, considerando ciò di cui parlavano al momento. Provò a immaginare un mondo dove i suoi amici e lui stesso (e sua madre!) diventavano vecchi come Savi, come quel macchiettato ologramma dalle guance cadenti. Rabbrividì, inorridito.

Poi ricordò l’orrore delle vasche, i vermi blu, il tavolo da pranzo di Calibano.

"Non sarebbe più semplice limitarsi a uccidere il mostro e lasciare intatto lo spedale?" pensò.

No, capì, tra la fame e la stanchezza. Lo spedale era ripugnante da qualsiasi punto lo si considerasse. L’intero sistema delle cinque Ventine era basato sulla convinzione che le persone salivano negli anelli dopo cento anni, per unirsi lassù ai post-umani, felici e immortali. Daeman pensò ai cadaveri grigiastri, in parte divorati, che galleggiavano là fuori nell’aria viziata e rarefatta, e poté solo lasciarsi sfuggire una risata.

«Cosa c’è?» chiese Prospero, girandosi a mezzo.

«Niente» rispose Daeman. Aveva voglia di piangere o di spaccare qualcosa. Spaccare, preferibilmente.

«Come possiamo distruggere lo spedale?» chiese Harman. Aveva brividi di febbre. Era perfino più pallido di Daeman. E lustro di sudore.

«Già, come?» disse Prospero, appoggiandosi al bastone e guardandoli. «Avete portato esplosivi, armi… a parte la futile pistola di Savi… o attrezzi?»

«No» rispose Harman.

«Qua non ce ne sono» disse Prospero. «I post-umani si erano evoluti ben oltre lo stadio delle guerre e dei conflitti. O degli attrezzi. I servitori facevano tutto il lavoro, quassù.»

«Lavorano ancora» obiettò Daeman.

«Solo nello spedale» disse Prospero. Tornò lentamente al pannello di comando al centro della stanza. «Avete pensato alle centinaia di esseri umani che galleggiano, inermi, nelle vasche?»

«Oddio» mormorò Harman.

Daeman si grattò le guance, sentì la barba: una sensazione strana, piacevole. «Per tornare sulla Terra non possiamo usare i nodi fax nelle vasche» disse «ma probabilmente chi è già nelle vasche può essere faxato di nuovo al portale di provenienza.»

«Sì» ammise Prospero. «Se convincete i servitori. O nel caso prendeste voi stessi il comando dei nodi fax. Ma c’è un problema.»

«Quale?» chiese Daeman, ma subito lo capì da solo.

Prospero sorrise sinistramente e annuì. «Per quelli appena faxati nelle vasche o per quelli che hanno concluso il procedimento di cura con i vermi blu, il ritorno via fax è possibile. Se invece la cura è in corso…» Tacque e il suo silenzio fu assai eloquente.

«Cosa possiamo fare?» chiese Harman. «Ci sarà gente nuova in arrivo e gente guarita in partenza, oltre a centinaia di persone in cura.»

«Se Prospero ha ragione e se prendiamo il controllo del fax» disse Daeman «possiamo bloccare gli arrivi e continuare le partenze a mano a mano che la guarigione è completa, finché tutte le vasche non saranno vuote. Tutt’e due siamo già stati nelle vasche. Quanto dura di solito la guarigione della Ventina… ventiquattr’ore? Quarantotto per incidenti gravi come essere divorati da un allosauro?»

«Non siete stati "guariti"» disse Prospero. «Vi ricostruivano da zero, usando i vostro codici di memoria aggiornati presi dalla griglia delle banche dati, fax, dal DNA immagazzinato e da parti di ricambio organiche. Però hai detto bene, anche le guarigioni più lente non richiedono più di quarantott’ore.»

Daeman aprì le mani e guardò Harman. «Due giorni, dal momento in cui avremo il controllo dello spedale.»

«Se riusciamo a impadronirci dello spedale e a controllare il procedimento fax» obiettò Harman, dubbioso.

Prospero si appoggiò alla spalliera della sedia. «Io non posso fare niente, ma posso dare informazioni» disse. «Posso dirvi come funzionano i comandi fax.»

«Ma riusciremo a faxare noi stessi?» chiese di nuovo Harman. Era chiara la sua preoccupazione al pensiero di usare il sonie.

«No» rispose Prospero.

«Possiamo riprogrammare i servitori in modo che ci pensino loro a faxarci?»

«No» disse il mago. «Dovrete distruggerli o disattivarli. Comunque, non sono programmati per lottare.»

«Nemmeno noi» sorrise Harman.

Prospero girò intorno alla sedia. «Oh, sì» mormorò. «Voi, sì. Con gli esseri umani, non importa quanto civili sembrino, è solo questione di risvegliare vecchi programmi.»

Daeman e Harman si guardarono. Harman rabbrividì di nuovo, malgrado la termotuta.

«I vostri geni ricordano come si uccide» disse Prospero. «Andiamo, vi mostro lo strumento di distruzione.»

L’ologramma di Prospero non poteva manipolare di persona i comandi virtuali del pannello di controllo centrale, ma mostrò a Daeman e a Harman come mettere le mani sui complessi tasti lucenti, le derivazioni, i cursori, gli interruttori e i manipolatori.