Mentre mi arrampico per il pendio che porta al Boschetto sacro, vedo venire verso di me il piccolo robot che si tira dietro l’amico a forma di granchio librato a mezz’aria, come un bambino che rimorchi un carretto giocattolo particolarmente grande. Non so perché, ma sono così contento di vederli vivi (anche se "ancora in esistenza" potrebbe essere un’espressione migliore) che mi si inumidiscono gli occhi.
«Hockenberry, sei ferito» dice il robot Mahnmut. «È grave?»
Mi tocco la fronte e il cuoio capelluto. Non sanguino quasi più. «Non è niente» dico.
«Hockenberry, sai cos’era la grande esplosione?»
«Una bomba atomica» rispondo. «Poteva essere termonucleare ma, nonostante il rombo, sospetto che fosse solo una bomba a fissione. Un po’ più potente di quella di Hiroshima, forse. Non ne so molto, di atomiche.»
Mahnmut drizza la testa. «Da dove vieni, Hockenberry?»
«Indiana» rispondo senza pensare.
Mahnmut aspetta.
«Sono uno scoliaste» gli dico di nuovo, sapendo che lui trasmette tutto al suo amico mediante il collegamento radio che in precedenza ha definito a raggio compatto. «Gli dèi mi hanno ricostruito partendo da vecchie ossa e DNA e brandelli di memoria estratti dai frammenti che hanno trovato sulla Terra.»
«Memoria dal DNA? Non credo.»
Faccio un gesto d’impazienza. «Non ha importanza» dico, brusco. «Sono il morto che cammina. Sono vissuto nella seconda metà del ventesimo secolo, probabilmente sono morto nella prima parte del ventunesimo. Ho ricordi nebulosi delle date. Tutta la mia vita precedente era nebulosa, fino a qualche settimana fa, quando i ricordi sono cominciati a tornare.» Scuoto la testa. «Sono un morto che cammina.»
Mahnmut continua a guardarmi con quella scura banda metallica che ha al posto degli occhi. Poi annuisce giudiziosamente e mi dà un calcio, piuttosto forte, allo stinco sinistro.
«Maledizione!» grido, saltellando sull’altra gamba. «Che ti prende?»
«A me sembri vivo» dice il piccolo robot. «Come sei venuto qui dal ventesimo o ventunesimo secolo dell’Età Perduta, Hockenberry? Per la maggior parte, i nostri scienziati moravec sono abbastanza sicuri che un simile viaggio nel tempo è impossibile, a meno che tu non corra quasi alla velocità della luce o non nuoti troppo vicino a un buco nero. Hai fatto l’una o l’altra di queste cose?»
«Non lo so!» rispondo. «E di sicuro non ha importanza. Guarda che macello!» Indico la città fumante e il caos nella piana di Ilio. Alcune navi greche già prendono il mare.
Mahnmut annuisce: per essere un robot, ha un linguaggio del corpo bizzarramente umano. «Orphu si chiede perché gli dèi hanno interrotto l’attacco.»
Guardo il grande guscio devastato dietro di lui. A volte dimentico che lì dentro c’è un cervello, a quanto si dice. «Riferisci a Orphu che non lo so» replico. «Forse volevano solo godersi per un poco lo spettacolo della paura e del caos quaggiù, prima di vibrare il coup de grâce.» Esito un secondo. «È un’espressione francese per…»
«Conosco il francese, purtroppo» m’interrompe Mahnmut. «Durante il bombardamento, Orphu mi citava brani di Proust in francese, del tutto inappropriati. E ora che cosa farai, Hockenberry?»
Guardo verso l’accampamento acheo. Tende bruciano, cavalli feriti corrono in preda al panico, guerrieri vanno avanti e indietro, navi si apprestano a salpare, altre si allontanano già dalla costa, con le vele che prendono il vento. «Volevo trovare Achille ed Ettore» rispondo. «Ma potrebbero volerci ore, in tutta questa confusione.»
«Fra diciotto minuti e trentacinque secondi» dice Mahnmut «accadrà una cosa che potrebbe cambiare tutto.»
Lo guardo, aspetto che si spieghi.
«Ho collocato un… Congegno… lassù, nel lago della caldera» dice il piccolo robot. «Orphu e io l’abbiamo portato da Giove. Portare lassù quel Congegno era lo scopo principale della nostra missione, in realtà, anche se non dovevamo essere noi a farlo; ma questa è un’altra storia. In ogni caso, fra diciassette minuti e cinquantadue secondi il Congegno si innescherà automaticamente.»
«È una bomba?» chiedo, con voce rauca. All’improvviso ho la bocca secca. Non riuscirei a sputare nemmeno se ne andasse della mia vita.
Mahnmut si stringe nelle spalle in quel suo modo bizzarramente umano. «Non lo sappiamo.»
«Non lo sapete?» urlo. «Non lo sapete? Avete collocato lassù un… un… Congegno, regolato il timer e non sapete che cosa farà? È assurdo.»
«Forse» dice Mahnmut. «Ma è ciò per cui siamo stati mandati qui… be’, mandati là, a dire il vero… dai moravec che hanno ideato la missione.»
«Quanto tempo hai detto che resta?» chiedo e aziono l’oggetto che porto al polso, che ha l’aspetto di un bracciale di cuoio e che funziona da cronometro: ha microcircuiti e piccoli proiettori di ologrammi per quando mi serve sapere l’ora.
«Diciassette minuti e otto secondi» risponde il piccolo robot.
Regolo il timer e lascio visibile il piccolo display olografico. «Merda!» dico.
«Già» conviene Mahnmut. «Ti telequanti di nuovo lassù, Hockenberry? Su Olimpo?»
Ho toccato il medaglione TQ, ma solo perché pensavo di guadagnare qualche minuto telequantandomi direttamente nel campo acheo per cercare Achille. La domanda di Mahnmut mi fa esitare e riflettere.
«Forse dovrei» dico. «Qualcuno dovrebbe controllare cosa combinano gli dèi. Potrei fare la spia un’ultima volta.»
«E poi?» chiede il robot.
Ora tocca a me, stringermi nelle spalle. «Poi torno a cercare Achille ed Ettore. Poi, forse, Odisseo e Paride. Enea e Diomede. Porto la guerra nella sede degli dèi, traghettando lassù questi eroi, due per volta, come animali nell’arca di Noè.»
«Non pare molto efficiente, in termini logistici, come campagna militare» dice Mahnmut.
«Conosci la strategia militare, piccola persona robotica?»
«No. A dire il vero, tutto ciò che so riguarda un sommergibile che è affondato su Marte e i Sonetti di Shakespeare.» Fa una pausa. «Orphu mi ha appena detto che non dovrei includere i Sonetti nel mio résumé.»
«Marte?»
Il robot gira verso di me la lucente testa metallica. «Non sapevi che l’Olimpo è in realtà il vulcano chiamato Olympus Mons e si trova su Marte? Ci sei vissuto per nove anni terrestri, no?»
Per un secondo sono tanto confuso da barcollare fino a un sasso e sedermi, per non correre il rischio di risvegliarmi lungo disteso sul terreno. «Marte» ripeto. "Due lune" penso. "Il gigantesco vulcano, il terriccio rosso, la gravità ridotta alla quale tornavo con piacere dopo una lunga giornata nella piana di Ilio." «Marte. Accidenti! Marte.»
Mahnmut rimane in silenzio, forse capisce d’avermi messo abbastanza in imbarazzo per quel giorno.
«Un momento» dico. «Marte non ha cieli azzurri, oceani, alberi, aria respirabile. Ho visto il primo Viking toccare il suolo marziano nel 1976. Ho guardato la TV, anni dopo, decenni dopo, quando quel piccolo Sojourner terminò la passeggiata marziana andando a incagliarsi contro una roccia. Non c’erano oceani. Né alberi. Né aria.»
«L’hanno terraformato» dice Mahnmut. «Piuttosto di recente, anche.»
«Chi l’ha terraformato?» replico, sulla difensiva, e mi accorgo di avere usato un tono rabbioso.