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«Gli dèi» risponde Mahnmut, ma la risposta mi sembra più una domanda.

Guardo l’ora. Quindici minuti, trentotto secondi. Metto il display del cronometro virtuale davanti alle telecamere, o gli occhi o ciò che c’è dietro quella banda tipo occhiali da sole sulla faccia del piccolo robot. «Cosa accadrà fra quindici minuti, Mahnmut? Non dirmi che tu e Orphu non lo sapete.»

«Non lo sappiamo, davvero» dice Mahnmut.

«Vado lassù a vedere cosa succede.» Stringo il medaglione.

«Portami con te» dice Mahnmut. «Ho regolato il timer: dovrei essere presente, quando il Congegno entra in funzione.»

Esito di nuovo, guardando il grande guscio dietro Mahnmut. «Vuoi disinnescarlo?»

«No. Era la mia missione… piazzare e innescare il Congegno. Ma se il timer fa cilecca, dovrei provvedere di persona.»

«Stiamo parlando, anche solo come evento a bassa probabilità immediata, della fine del mondo, Mahnmut?»

L’esitazione del robot è rivelatrice.

«Faresti meglio a restare con Orphu altri… ah… quattordici minuti e trentanove secondi» dico. «Visto com’è ridotto quel poveretto, il mondo potrebbe finire e lui non lo saprebbe, se non ci fossi tu a dirglielo.»

«Orphu ti trova piuttosto divertente per essere uno scoliaste, Hockenberry» replica Mahnmut. «Penso ancora che dovrei venire con te.»

«Uno, sprechi tutto il dannato tempo a parlare. Due, ho solo un Elmo di Ade e non voglio farmi catturare perché gli dèi vedono un robot che cammina con me invisibile. Tre… addio.»

Mi metto l’Elmo di Ade, aziono il medaglione e me ne vado.

Mi telequanto nella Grande Sala degli Dèi.

Si direbbe che siano tutti lì, tranne Apollo e Atena, che immagino a mollo nelle vasche di guarigione, con vermi blu negli occhi e sotto le ascelle. Nei pochi secondi che ho, prima che scoppi il casino, vedo che gli dèi sono vestiti e armati per la guerra: la sala risplende di corazze d’oro, lance lucenti, elmi dal cimiero piumato e lucidi scudi formato divino. Vedo Zeus accanto al cocchio fiammeggiante, Poseidone in corazza scura, Ermes ed Efesto armati fino ai denti, Ares con l’arco d’argento di Apollo, Era in lucente bronzo e oro, Afrodite che indica dalla mia parte…

Merda!

«SCOLIASTE HOCKENBERRY!» tuona lo stesso Zeus, guardando dritto verso di me, dall’altra parte della sala affollata. «CONGELATI!»

Non è solo un divino invito a non muovermi: sento congelare ogni muscolo, tendine, legamento, cellula. Ho l’impressione che il gelo mi blocchi il cuore. Il moto browniano in me cessa. La mia mano non riesce a muoversi nemmeno di un centimetro verso il medaglione TQ, prima che io sia immobile come una statua.

«Toglietegli l’Elmo di Ade, il congegno TQ e ogni altra cosa» ordina Zeus.

Ares ed Efesto scattano e mi spogliano di tutto, davanti agli dèi e alle dee. L’elmo di cuoio è lanciato a un torvo Ade che, vestito com’è in nera corazza chitinosa di disegno esotico, pare un terribile, torvo scarafaggio. Zeus viene avanti, raccoglie da terra il mio medaglione TQ e lo fissa, arcigno, come sul punto di sbriciolarlo nell’enorme pugno. I due dèi terminano di strapparmi le vesti e non mi lasciano neppure l’orologio da polso né la biancheria intima.

«Scongelati» dice Zeus. Crollo sul pavimento di marmo e ansimo, tenendomi il petto. Il cuore mi duole così forte, mentre riprende a battere, che sono sicuro d’avere un infarto. Tutto ciò che posso fare è non pisciarmi addosso davanti a tutti.

«Portatelo via» dice Zeus e mi gira le spalle.

Ares, alto due metri e mezzo, dio della guerra, mi afferra per i capelli e mi trascina via.

55

ANELLO EQUATORIALE

«Pensa, Lui» sibilò la voce di Calibano dalle ombre dello spedale «insegnerebbe ai due esseri razionali ciò che significa "deve"! Fa come gli piace o per quale altro motivo Signore? E Lui pure.»

«Da dove diavolo viene questa voce?» scattò Harman. Lo spedale era quasi tutto buio, la poca luce proveniva solo dalle vasche accese che si svuotavano a una a una.

Daeman frugò dalla parete semipermeabile al tavolo da cannibali, in cerca della fonte di quei bisbigli. «Non lo so» rispose alla fine. «Da un cunicolo di ventilazione. Da un ingresso che non abbiamo trovato. Ma se si fa vedere, lo uccido.»

«Gli puoi sparare» fece notare l’ologramma di Prospero, fermo accanto al bancone vicino ai comandi delle vasche «ma non è detto che tu lo uccida. Un diavolo, un demonio in carne e ossa, quel Calibano: non c’è insegnamento che riesca a cambiarne la natura. Le cure che per pura umanità gli ho dedicato non son servite a nulla, tutte invano!»

Per due giorni e due notti, quarantasette ore e mezzo, centoquarantaquattro rivoluzioni dell’asteroide dalla luce della Terra alla luce delle stelle, Harman e Daeman avevano provveduto a faxare il contenuto delle vasche di guarigione, finché era rimasta solo qualche decina di persone, le ultime arrivate. Ora sapevano come richiamare ologrammi dell’acceleratore lineare che correva in modo davvero lineare dritto su di loro. Adesso vedevano l’enorme affare, che si avvicinava col wormhole in punta, chiaro e terrificante nei pannelli trasparenti dello spedale, con i propulsori accesi e code di fiamma azzurra. Prospero e i dati virtuali garantivano che mancavano quasi novanta minuti all’impatto, ma l’istinto e la vista dicevano diversamente, perciò tutt’e due smisero di lanciare occhiate in alto.

Calibano era vicino, chissà dove. Daeman tenne la maschera osmotica per sfruttare le lenti che accrescevano la luminosità, ma usò anche la torcia di Savi e scrutò sotto il tavolo da cannibali, con un luccichio di luce bianca su ossa bianche.

Avevano pensato che il viaggio dalla sala di controllo a cupola fosse la parte peggiore (la lunga nuotata tra i fuchi nella fioca luce, aspettando da un momento all’altro l’attaccò di Calibano) ma, anche se in due occasioni qualcosa di grigio si era mosso nelle ombre e Daeman aveva usato la pistola di Savi per sparare a ciò che si muoveva, una volta la creatura ombra era schizzata via nuotando e l’altra era ruzzolata fuori, morta, con un luccichio di dardi sulla carne grigia. Era un cadavere di post-umano nei fuchi. Ora, però, dopo quarantasette ore e mezzo senza dormire, mangiando solo carne di lucertola rancida, avevano toccato il fondo. Quest’ultima ora era il fondo. Alla fine si erano fermati all’entrata della grotta artificiale, con gli stivali e il calcio della pistola avevano frantumato la crosta di ghiaccio e avevano riempito la loro unica bottiglia di globuli di acqua disgustosa, torbida di impurità, ardentemente desiderata. Alla fine l’avevano fatto. Ma ora l’acqua era finita e nessuno dei due aveva voglia di lasciare lo spedale per andare a prenderne altra. Inoltre, avevano tolto dalla parte superiore delle vasche dei fogli di plastica e li avevano inchiodati sopra la membrana semipermeabile d’ingresso, in modo che il rumore dello strappo li avrebbe avvertiti, se e quando Calibano fosse entrato nello spedale da quella parte; perciò non sarebbero potuti passare facilmente da lì, anche se avessero voluto. Ora tutt’e due avevano la lingua gonfia e un tremendo mal di testa per la sete e la fatica e l’aria viziata e la paura.

Non avevano avuto difficoltà con la decina di servitori dello spedale. Avevano lasciato che diversi continuassero il loro compito — faxare i corpi riparati — e avevano disattivato quelli che erano d’intralcio. Daeman aveva sparato a uno di essi, ma il gesto si era rivelato un errore. I dardi avevano strappato al servitore schegge e vernice, gli avevano fracassato un braccio manipolatore e staccato un occhio, ma non lo avevano distrutto. Harman aveva risolto il problema: aveva trovato un pesante pezzo di tubo nel vivaio di vasche, l’aveva staccato (facendo uscire ossigeno liquido che si era vaporizzato nell’aria già fredda) e con quello aveva colpito il servitore finché non era rimasto immobile. I restanti servitori erano andati in pensione allo stesso modo.