"Marte" penso. "Per tutti questi anni. Madre misericordiosa… Marte."
Nudo, rabbrividisco nell’aria fredda. Vedo la pelle d’oca spuntarmi sulle braccia e sulle cosce e me l’immagino sulle natiche. Ho le piante dei piedi ghiacciate per il contatto col gelido marmo. Ho male al cuoio capelluto perché mi hanno tirato per i capelli e all’orgoglio perché mi hanno preso e spogliato con la massima facilità.
"Chi credevo di essere?" mi dico. "Ho guardato dèi e supereroi per tanto di quel tempo da dimenticare che nella vita precedente ero solo un comune mortale. Anche meno, ora."
I giocattoli mi hanno dato alla testa, penso: la bardatura di levitazione e il giubbotto protettivo e il braccialetto per morfizzarmi e il medaglione TQ e il microfono/storditore e le lenti a ingrandimento e l’Elmo di Ade. Tutta quella splendida merda che pare uscita dai cataloghi di gadget elettronici. Per qualche giorno mi ha permesso di giocare al supereroe.
Non più. Papà mi ha portato via i giocattoli. E papà è furioso.
Mi ricordo della bomba di Mahnmut e, per abitudine, alzo il polso per controllare l’ora. Merda. Non ho più neanche il cronometro. Ma non dovrebbe mancare più di qualche minuto alla teorica esplosione del Congegno del robot. Mi sporgo dal balcone: questo lato dell’edificio non guarda sul lago della caldera, perciò non credo che vedrò il lampo. L’onda d’urto sbatterà giù dalla cima dell’Olimpo l’intero edificio o si limiterà a incendiarlo? Mi torna un nuovo ricordo, immagini viste in TV, uomini e donne che, ormai condannati, saltano giù dalle torri in fiamme di New York; chiudo gli occhi e mi premo le tempie, nel vano tentativo di liberarmi di queste visioni non richieste. Riesco solo a renderle più vivide. "Diavolo" penso "se gli dèi mi avessero lasciato vivere ancora per qualche settimana, se io stesso non avessi accelerato la mia fine evitando di trastullarmi con quei giocattoli e con il destino di tante persone, forse avrei ricordato tutti i particolari della mia vita precedente. Forse avrei ricordato perfino come sono morto."
Alle mie spalle la porta si apre con uno schianto e Zeus, da solo, entra a grandi passi. Mi giro per affrontarlo e torno nella stanza spoglia.
Volete una ricetta per perdere tutta la stima per voi stessi? Provate a stare, nudi e scalzi, davanti al dio di tutti gli dèi, vestito con alti stivali, schinieri d’oro e corazza da battaglia. A parte questa ovvia disparità, c’è la faccenda dell’altezza. Cioè, sono alto un metro e settanta (non "basso", ma di "altezza media", solevo ricordare alla gente, compresa mia moglie Susan) e Zeus oggi tocca di sicuro i quattro metri e mezzo. La porta della stanza pare fatta per campioni di pallacanestro che tengano in piedi sulle spalle un altro atleta come loro, ma Zeus si è dovuto chinare per varcarla. Ora la chiude con un colpo secco. Nell’enorme mano ha ancora il mio medaglione TQ.
«Scoliaste Hockenberry» dice «sai quale guaio hai causato?»
Cerco di assumere un’aria di sfida, ma mi rassegno a fare solo in modo che le gambe non mi tremino in maniera incontrollabile. Sento il pene e lo scroto contrarsi per il freddo e per la paura, ridursi alle dimensioni di una carotina e due piselli.
Come se l’avesse notato, Zeus mi squadra in lungo e in largo. «Dio mio, voi umani vecchio stile eravate davvero brutti» romba. «Sei così magro da mostrare le costole eppure hai ugualmente la pancetta.»
Ricordo che Susan mi diceva sempre che avevo le natiche come due biglie, ma lo diceva con affetto.
«Come mai conosci la mia lingua?» chiedo con voce tremante.
«SILENZIO!» tuona il padre degli dèi.
Mi fa bruscamente segno di uscire sul balcone e mi segue fuori. È così grosso da lasciare a malapena posto anche per me. Mi rifugio in un angolo e cerco di non guardare giù. Adesso a questo infuriato dio degli dèi non resta che alzarmi con una sola mano e gettarmi al di là della balaustra per vendicarsi. Sbatterei le braccia e urlerei per cinque minuti, prima di toccare il suolo.
«Hai ferito mia figlia» ringhia Zeus.
"Quale?" penso disperatamente. Sono colpevole d’avere cospirato per uccidere Afrodite e anche Atena; ma sospetto che sia Atena, quella a cui si riferisce. Ha sempre avuto un debole per Atena. Non ha importanza, sospetto. Cospirare per nuocere a un dio (e tanto più per abbatterli tutti) è di sicuro reato passibile di pena capitale. Scruto di nuovo oltre la balaustra. Vedo l’ascensore di cristallo scendere a zigzag fin nella nebbia a livello del mare: il mio vecchio dormitorio da scoliaste, ormai raso al suolo dalle fiamme, non sarebbe stato distinguibile in ogni caso, con la vista non potenziata. Buon Dio, siamo davvero in alto!
«Sai cosa accadrà oggi, Hockenberry?» chiede Zeus, ma è una domanda retorica, immagino. Abbassa le braccia e posa le dita, ciascuna lunga la metà del mio avambraccio, sulla balaustra di pietra.
«No» rispondo.
Si gira a guardarmi dall’alto in basso. «Per te sarà frustrante, dopo tanti anni da scoliaste a conoscenza di tutto» romba. «Sapendo sempre ciò che accadrà dopo, anche quando gli dèi lo ignorano. Ti sarai sentito il Fato in persona.»
«Mi sentivo uno stronzo» dico.
Zeus annuisce. Poi indica i cocchi che si alzano dalla vetta dell’Olimpo, uno dopo l’altro. Centinaia. «Oggi pomeriggio» dice Zeus «distruggeremo la razza umana. Non solo quegli sciocchi in posa a Troia, ma tutti gli esseri umani, dappertutto.»
Come si può commentare un’ammissione del genere? «Sembra un filino eccessivo» riesco a dire alla fine. Sarei più soddisfatto della mia spacconata se la voce non continuasse a tremarmi come quella di un ragazzino nervoso.
Zeus guarda i cocchi che si alzano e la folla di dèi e dee dalla corazza d’oro in attesa di montare sui velivoli. «Poseidone e Ares e altri mi hanno tormentato per secoli perché eliminassi la razza umana come quel virus che è» dice Zeus, rombando più fra sé che verso di me, penso. «Tutti abbiamo preoccupazioni… Quest’epoca dell’Uomo eroe che vedi a Ilio impensierirebbe qualsiasi razza di dèi, troppo accoppiamento fra la razza umana e la nostra… ti sarai reso conto della quantità di DNA nanomodificato che abbiamo trasmesso a scherzi di natura come Eracle e Achille mediante la nostra libidine scopereccia con i mortali. Alla lettera.»
«Perché ne parli con me?» chiedo.
Zeus adesso mi guarda davvero dall’alto in basso. Si stringe nelle spalle, quelle enormi spalle due metri e mezzo sopra la mia testa. «Perché fra qualche secondo sarai morto e perciò posso parlare liberamente. Sull’Olimpo, scoliaste Hockenberry, non ci sono amici eterni né alleati degni di fiducia né compagni leali. Solo interessi permanenti. Il mio interesse è rimanere signore degli dèi e sovrano dell’universo.»
«Un bel lavoro a tempo pieno» commento, sarcastico.
«Proprio così» dice Zeus. «Proprio così. Chiedi a Setebo o a Prospero o alla Quiete, se hai dubbi. Ora, Hockenberry, hai un’ultima domanda, prima della dipartita?»
«A dire il vero ne ho una» rispondo. Mi accorgo con sorpresa che la voce mi si è rinfrancata, che le ginocchia non mi tremano più. «Voglio sapere chi siete in realtà voi dèi. Da dove venite? So che non siete i veri dèi greci.»
«Ah, no?» dice Zeus. Il suo sorriso, uno scintillio di denti bianchi e aguzzi fra la barba grigio argento, non è paterno.
«Chi siete davvero?» chiedo di nuovo.
Zeus onnipotente sospira. «Purtroppo al momento non abbiamo tempo per tutta la storia. Addio, scoliaste Hockenberry.» Toglie le mani dalla balaustra e si gira verso di me.
Risulta che ha ragione lui: non abbiamo tempo per tutta la storia né per niente altro. All’improvviso l’alto edificio vibra, si riempie di crepe, geme. L’aria stessa sopra la vetta dell’Olimpo pare ispessirsi e incresparsi. Cocchi d’oro traballano in volo e giungono fin quassù le grida e gli strilli di dèi e dee ancora a terra.