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Zeus barcolla all’indietro contro la balaustra, lascia cadere sul pavimento di marmo il medaglione TQ e protende l’enorme mano per sostenersi contro l’edificio: l’alta torre è scossa dalle fondamenta, vibra avanti e indietro in un arco di dieci gradi.

Alza gli occhi.

All’improvviso il cielo è pieno di striature. Sento bang sonici, mentre linee su linee di fuoco squarciano il cielo marziano. Sopra Olimpo, sopra la nostra testa, parecchie gigantesche sfere rotanti nere come lo spazio e rosse come il magma si aprono contro l’azzurro del cielo. Sono simili a buchi praticati nel cielo stesso e nel ruotare si abbassano.

Ancora più in basso, molto più in basso, vedo altri di quei cerchi frastagliati, ciascuno col raggio di un campo di calcio come minimo, ruotare alla base di Olimpo. Altri compaiono sopra l’oceano a nord, alcuni tagliano il mare stesso.

Formiche escono a migliaia dai cerchi che toccano terra e allora mi rendo conto che le formiche sono uomini. Esseri umani?

Il cielo ora è pieno non solo di cocchi dorati, ma di macchine nere dai contorni taglienti, alcune più grosse dei cocchi, alcune più piccole, tutte con l’aspetto inumano e micidiale dei mezzi militari. Altre striature di fuoco riempiono l’atmosfera superiore, cadono a dirotto verso l’Olimpo, come missili ICBM.

Zeus alza i pugni verso il cielo e sbraita alle piccole figure divine molto più in basso. «ALZATE L’EGIDA!» ruggisce. «ATTIVATE L’EGIDA!»

Mi piacerebbe stare qui a scoprire di che diavolo parla e che cosa avverrà dopo, ma ho altre priorità. Mi lancio a capofitto fra il possente arco delle gambe di Zeus, scivolo con la pancia sul pavimento di marmo scosso dalle vibrazioni, con una mano afferro il medaglione TQ e con l’altra ruoto il quadrante.

58

ANELLO EQUATORIALE

All’inizio non riuscivano a togliere Hannah dalla vasca. Il pesante pezzo di tubo non intaccava la plastica trasparente. Daeman sparò tre colpi di pistola, ma i dardi scalfirono appena la superficie della cisterna e rimbalzarono da tutte le parti, rompendo oggetti fragili, lacerando servitori già disattivati e sfiorando lui e Harman. Alla fine questi trovò un modo per arrampicarsi sulla vasca e usarono il tubo come leva per sollevare e strappare il complicato coperchio. Poi Harman abbassò il visore della termotuta, si mise la maschera osmotica e saltò nel liquido in prosciugamento per tirare fuori Hannah. Senza la principale sorgente di corrente elettrica, con le luci spente e col bagliore della vasca che si riduceva a zero, lavorarono alla luce della torcia elettrica.

Distesero sul pavimento bagnato dello spedale la loro giovane amica, nuda, bagnata, glabra, con la pelle che pareva nuova di zecca e l’aria vulnerabile di un pulcino. La buona notizia era che Hannah respirava, ansiti brevi e rapidi, ma senza dubbio con le proprie forze. La cattiva notizia era che non riuscivano a svegliarla.

«Vivrà?» chiese Daeman. Gli altri ventiquattro uomini e donne nelle vasche erano chiaramente morti o moribondi e non c’era modo di tirarli fuori in tempo.

«Come faccio a saperlo?» ansimò Harman.

Daeman si guardò intorno. «Senza l’energia per il riscaldamento, qui la temperatura scende in fretta. Fra qualche minuto sarà sotto zero, come nella città. Dobbiamo trovare qualcosa con cui coprirla.» Impugnando sempre la pistola, ma incurante dell’eventuale presenza di Calibano, girò nello spedale sempre più buio. C’erano ossa umane, quarti di carne in decomposizione, servitori immobili, pezzi di becher e di tubi, ma nemmeno uno straccio di coperta. Daeman strappò un pezzo di plastica trasparente dal rivestimento che avevano già sfruttato per sigillare l’ingresso semipermeabile e tornò da Harman…

Hannah, ancora priva di conoscenza, era scossa da un tremito incontrollabile. Harman la stringeva fra le braccia, a mani nude la massaggiava per riscaldarla, ma senza grandi risultati. L’avvolsero alla meglio nel foglio di plastica, anche se non erano convinti che l’involucro trattenesse il calore corporeo.

«Morirà, se non facciamo qualcosa» mormorò Daeman. Dalle ombre delle vasche ormai buie provenne un fruscio. Daeman non si prese nemmeno la briga di alzare la pistola. Il vapore prodotto dall’ossigeno liquido e da altri fluidi fuoriusciti cominciava a riempire lo spedale.

«Tanto moriremo presto in ogni caso» disse Harman. Indicò i pannelli trasparenti sul soffitto.

Daeman alzò gli occhi: il bianco puntino luminoso dell’acceleratore lineare lungo tre chilometri era più vicino, molto più vicino. «Quanto manca?» chiese.

Harman scosse la testa. «Senza corrente, i cronometri e Prospero sono scomparsi.»

«Quando sono iniziati i guai avevamo ancora una ventina di minuti.»

«Già» disse Harman. «Ma quanto tempo è trascorso? Venti minuti? Trenta? Quarantacinque?»

Daeman guardò in alto. La Terra non si vedeva; solo le stelle e la sagoma luminosa che si precipitava contro di loro ardevano di gelida luce, al di là dei pannelli trasparenti. «La Terra era ancora visibile quando è iniziata questa merda» disse Daeman. «Sarà stato non più di venti minuti fa. Quando ricompare…»

Il limbo biancazzurro del pianeta comparve tra i pannelli inferiori. «Dobbiamo andare» disse Daeman. Nel buio alle loro spalle ci furono altri schianti e fruscii. Daeman si girò di scatto, pistola pronta, ma Calibano non venne fuori. Ora anche la gravità dello spedale diminuiva; liquidi raccolti in pozze si staccavano dal pavimento e galleggiavano, si aggregavano in forme simili ad amebe e tendevano a divenire sfere. Da ogni parte la luce della torcia si rifletteva su superfici lucide e bagnate.

«Come ce ne andiamo?» chiese Harman. «Abbandoniamo qui Hannah?» Le palpebre della donna non erano chiuse completamente, ma lasciavano vedere solo il bianco degli occhi. Hannah tremava meno: a Daeman parve un segno infausto.

Il giovane si era messo la maschera (nello spedale c’era aria appena sufficiente a respirare, anche se puzzava come una cella per carne surgelata rimasta senza corrente) e ora si grattò la barba. «Non possiamo portarla al sonie, abbiamo solo due termotute. Morirà assiderata già nella città, altro che nello spazio.»

«Il sonie ha il campo di forza e il riscaldamento» disse piano Harman. «Savi li aveva messi in funzione, quando volavamo ad alta quota.» Si era di nuovo sollevato la maschera e gli si condensava il fiato nell’aria fredda. Aveva ghiaccioli sulla barba e sui baffi, e occhi così stanchi che Daeman stava male solo a guardarli.

Daeman scosse la testa. «Savi mi ha spiegato tutto sul freddo e sul caldo nello spazio, ciò che il vuoto provoca al corpo umano. Hannah sarà già morta prima che mettiamo in funzione il campo di forza.»

«Ricordi come metterlo in funzione?» chiese Harman. «Come pilotare quel maledetto velivolo?»

«Io… non lo so» rispose Daeman. «Ho guardato Savi pilotarlo, ma non ho mai pensato che avrei dovuto farlo io. Tu ti ricordi?»

«Mi sento così… stanco» disse Harman, strofinandosi le tempie.

Hannah aveva smesso di tremare e pareva morta. Daeman si tolse il guanto della tuta termica e posò la mano sul petto della ragazza. Per un secondo fu sicuro che fosse morta, poi sentì il debole battito del cuore, rapido come quello di un passerotto. «Harman, togliti la termotuta» gli disse in tono deciso.

Harman lo guardò, sorpreso. «Sì, hai ragione» disse. «Ho avuto le mie cinque Ventine. Lei merita di vivere più di…»

«No, idiota» lo interruppe Daeman e cominciò ad aiutarlo a togliersi la termotuta. L’aria già gli gelava la faccia scoperta e le mani; Daeman non riusciva a immaginare cosa significasse essere nudi in quel freddo. L’aria diventava sempre più rarefatta, le loro voci risuonavano più acute e più deboli. «Dividi con lei la termotuta. Conta fino a cinquecento, poi la togli a lei e ti scaldi. Continua a scambiarla con lei, se no muore.»