«Tu dove andrai?» ansimò Harman. Si era tolto la termotuta e cercava di infilarla alla ragazza priva di sensi, ma per il freddo aveva un tale tremito alle braccia e alle mani che Daeman dovette aiutarlo. La termotuta si adattò immediatamente al corpo di Hannah! e la ragazza cominciò di nuovo a tremare, anche se la tuta tratteneva ora il cento per cento del calore corporeo. Harman le mise sul viso la maschera osmotica.
«Vado a prendere il sonie» ansimò Daeman. Diede a Harman la pistola, ma fu obbligato a sollevare la maschera per farsi udire, perché Harman non aveva più la radio incorporata nella tuta. «Tienila, nel caso che Calibano si faccia vivo.» Prese il pezzo di tubo, lungo più di un metro, che aveva usato come palanchino.
«Non verrà da noi» disse Harman, con i denti che gli battevano. «Verrà a prendere te. Poi potrà mangiarci tutti a piacimento.»
«Be’, speriamo di fargli venire il mal di pancia» disse Daeman. Si calò la maschera osmotica, si diede la spinta e si proiettò verso la membrana d’uscita.
Usò l’estremità appuntita del tubo per tagliare nella membrana un foro a grandezza d’uomo; l’attraversò, scalciando, e si trovò nella gravità più bassa, nel gelo più intenso e nel buio fuori dello spedale. Solo allora si accorse di non avere detto a Harman che contava di tornare lì col sonie e di attraversare in qualche modo la parete finestra per prenderli a bordo. "Be’" pensò "è troppo tardi per tornare indietro a dirglielo."
Aveva sempre avuto difficoltà a tenere dietro a Savi e Harman, quando all’inizio si muovevano nella città di cristallo, un mese (un’eternità!) prima, con quel sistema di spinta e breve volo; ma ora nuotava nell’aria rarefatta come una creatura marina abituata alla bassa gravità, come una lontra, e trovava sempre il posto perfetto dove puntare il piede per darsi la spinta nell’istante giusto, muoveva come pagaie nell’aria i tre arti liberi, con la massima economia di sforzo fisico, faceva capriole e piroette, con tempismo perfetto per trovare il successivo montante o tavola o perfino cadavere post-umano dove darsi la spinta e percorrere il tratto seguente del viaggio.
Eppure quel sistema non era abbastanza rapido. Daeman sentiva che il tempo avrebbe finito per vincere la corsa. Lanciava occhiate in alto ai pannelli della città di cristallo, che pian piano si oscuravano, che rendevano più fitto il buio fra i banchi di fuchi e le terrazze disseminate di cadaveri; ma lì non c’erano pannelli trasparenti, dai quali vedere l’acceleratore lineare in arrivo. "Lo sentirò" si chiese Daeman "quando si schianterà contro il tetto di cristallo? O l’aria è troppo sottile per trasmettere i suoni?"
Accantonò le domande: giunto il momento, l’avrebbe scoperto.
Diretto a sud, rischiò di oltrepassare la torre di cristallo, ma guardò in alto e vide di essere proprio sotto le centinaia e centinaia di piani che si alzavano nel buio sopra di lui.
Atterrò sull’asteroide, resse a due mani il tubo, si guardò intorno, usando le lenti della termotuta per penetrare le tenebre. Ombre umanoidi galleggiavano là fuori, alcune abbastanza vicino, ma i loro capitomboli involontari facevano pensare a cadaveri di post-umani, non a Calibano. Probabilmente.
Daeman si mise sottobraccio il tubo, si accosciò, imitando la postura di Calibano, e si diede la spinta, con tutte le energie residue nelle gambe e nelle braccia. Galleggiò verso l’alto, ma lentamente, troppo lentamente. Aveva l’impressione di non essersi affatto mosso, quando raggiunse il primo terrazzo, due metri e mezzo più in alto; e capì quanto fosse debole, quando usò la ringhiera per spingersi di nuovo in alto, tenendo d’occhio le ombre nel salire.
C’erano troppe ombre. Calibano poteva saltargli addosso da uno o l’altro dei terrazzi bui, ma lui non poteva farci niente: doveva stare vicino alla parete e ai balconi per continuare a darsi la spinta, sempre in movimento, galleggiando verso l’alto, rapidamente all’inizio, poi con velocità sempre minore, per scegliere il terrazzo successivo, sentendosi come una rana che saltasse da una foglia di ninfea di pietra e di metallo, all’altra.
All’improvviso si mise a ridere. Ricordò che la sua termotuta, sotto la polvere e il fango e il sangue e la sporcizia, era verde. Lui sembrava davvero una goffa rana rinsecchita, acquattata per darsi la spinta in verticale, ogni dieci ringhiere, ogni dieci balconi. La risata echeggiò sordamente nelle cuffie della trasmittente e lo sconvolse, lo spinse al silenzio, a parte il respiro affannato e i grugniti di sforzo.
Con una stilettata di paura, Daeman esitò e si ribaltò, pur continuando a galleggiare più in alto. "Ho oltrepassato il piano dove il sonie è parcheggiato all’esterno?" si domandò. La distanza dal pavimento in basso pareva impossibile, trecento metri d’aria vuota, almeno, e il sonie era solo… "Quanti piani?" Si sforzò di ricordare l’immagine olografica nella sala di comando di Prospero. Centocinquanta metri? Duecento?
Con la nausea per il terrore d’essersi smarrito, galleggiò più lontano dalla parete e controllò i pannelli di vetro. La maggior parte brillava di quella ripugnante luminescenza arancione, sempre più debole. Alcuni erano limpidi, così in alto, inargentati dal chiarore della Terra. Nessuno mostrava il segno bianco delle membrane semipermeabili, come la prima camera d’equilibrio e la porta di Prospero. "Nell’ologramma ho visto davvero quel segno sulla finestra o presumo solo che ce ne sia uno visibile dall’interno?"
Galleggiando fino quasi a fermarsi al culmine dell’ultimo salto, si tolse in fretta la maschera osmotica. Stava per vomitare.
"Non hai tempo per vomitare, idiota" si disse. Provò a respirare l’aria a quel livello, ma era troppo rarefatta, troppo fredda, troppo viziata. Cosciente solo in parte, si rimise la maschera. "Perché non ho portato la torcia?" si lamentò. "Pensavo che servisse a Harman per badare a Hannah o per individuare Calibano e sparargli, ma ora non riesco a trovare la fottuta finestra."
Si costrinse a rallentare il respiro e a ritrovare la calma. Prima che la gravità cominciasse a tirarlo giù di nuovo verso quel piano buio una trentina di metri più in basso, si diede la spinta e si scostò maggiormente dalla parete, girandosi sulla schiena come un nuotatore che guardasse le stelle.
Eccola là. Quindici metri più in alto, su quella parete. Il riquadro bianco nel pannello opaco di una finestra.
Daeman piroettò, tenne fermo il tubo fra mento e petto, usò tutt’e due le braccia e le mani guantate in un potente nuoto a rana. Se avesse mancato il balcone più vicino, avrebbe perso sessanta o più metri di quota e non credeva di avere le forze per rifare la salita.
Raggiunse il terrazzo, con la sinistra afferrò il tubo e si diede la spinta in verticale, con una scelta di tempo così perfetta che rallentò e si fermò proprio davanti al pannello col segno bianco. Ansimando, con la vista annebbiata dal sudore, protese il braccio destro… mano e braccio attraversarono la membrana come se fosse un velo leggermente appiccicoso.
«Grazie, Signore» ansimò Daeman.
Calibano lo colpì in quel momento, saltando fuori dai recessi in ombra del terrazzo superiore, lunghe braccia e lunghe gambe spalancate e pronte a ghermire, denti che brillavano al chiarore della Terra.
«No» grugnì Daeman, mentre il mostro colpiva, gli avvolgeva intorno al corpo braccia e gambe e lunghe dita, apriva le fauci per azzannargli la giugulare. Daeman riuscì ad alzare il braccio destro a protezione della gola (i denti di Calibano trapassarono la carne e incontrarono l’osso) mentre le due figure, in un groviglio di membra che si dibattevano, col sangue che zampillava nella bassa gravità intorno a loro, cadevano insieme nell’aria rarefatta sul balcone in basso, schiantavano vetro e plastica e legno e carne congelata di post-umani, mentre ruzzolavano nel buio.