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Sì? disse Orphu, calmo, forse perfino divertito.

Atterrano sulla cresta, accanto a te! Quasi addosso a te, Orphu! Non ti muovere, arrivo! Si mise a correre a quattro zampe, alla massima velocità, verso la cresta dove lo scarico giallastro dell’astronave sollevava, a un centinaio di metri, polvere e sassi. Nel polverone non scorgeva Orphu, mentre le varie macchine si posavano accanto alla tomba dell’amazzone. Le macchine volanti dentellate estendevano un complicato meccanismo d’atterraggio a tre piedi. Mahnmut riuscì a scorgere, prima di perdere di vista ogni cosa, mentre galoppava nella tempesta di polvere, che le armi nelle navi calabrone in atterraggio giravano su perni, prendendo di mira Orphu.

Tanto non vado da nessuna parte, disse Orphu ridendo. Non slogarti un servomeccanismo per fare più in fretta, amico mio. Credo di sapere chi sono questi tipi.

60

ANELLO EQUATORIALE

Rotolando con Calibano nel buio del terrazzo, a Daeman parve che il mostro cercasse di strappargli il braccio. In realtà, il mostro cercava davvero di strappargli il braccio. Solo le fibre metalliche della termotuta e la risposta automatica dell’indumento a chiudere ogni strappo impedivano ai denti di Calibano di strappare la carne dal braccio di Daeman e poi staccare le ossa l’una dall’altra. Ma la termotuta non avrebbe salvato ancora a lungo Daeman.

L’uomo e la belva in forma umana urtarono tavoli, rotolarono fra cadaveri di post-umani, andarono a sbattere contro una trave maestra e nella microgravità rimbalzarono su una parete di vetro. Calibano non mollava la presa e stringeva a sé Daeman, con le lunghe dita delle mani e quelle, palmate e prensili, dei piedi. A un tratto, sbavando, mollò la presa dei denti, tirò indietro la testa e si tuffò di nuovo verso il collo di Daeman. Di nuovo Daeman parò con l’avambraccio destro, di nuovo fu azzannato fino all’osso e gemette forte, mentre rimbalzavano contro la ringhiera del terrazzo. Malgrado il sistema automatico sigillante della termotuta, il sangue schizzò in globuli separati che scoppiavano nell’urto con la tuta di Daeman o con la pelle squamosa di Calibano.

Per un secondo i due rimasero incuneati contro la ringhiera del terrazzo e Daeman fissò Calibano negli occhi gialli, a solo qualche centimetro dai suoi. Se non ci fosse stato di mezzo l’avambraccio, capì, Calibano avrebbe squarciato con un morso la maschera osmotica e gli avrebbe strappato la faccia in un secondo; ma ciò che passò in realtà nella mente di Daeman in quel momento fu una semplice frase e un fatto sorprendente: "Non ho paura".

Non c’era spedale al quale faxare il suo cadavere e ripararlo in quarantott’ore o anche meno, non c’erano più vermi blu in attesa: qualsiasi cosa fosse accaduta, sarebbe stata permanente.

"Non ho paura."

Vide le orecchie da animale, il muso sbavante, le spalle squamose e pensò di nuovo che Calibano era fatto di carne e di ossa. Ricordò un particolare visto nella grotta, il rosa ripugnante dello scroto e del pene di quella creatura animalesca.

Quando Calibano staccò i denti per un altro tentativo, Daeman capì di non poter bloccare per la terza volta l’affondo verso la giugulare; allora protese in basso la mano libera, trovò due rotondità cedevoli e strinse come non aveva mai stretto nulla in vita sua.

Anziché terminare l’affondo, il mostro tirò indietro di scatto la testa, ruggì con tale forza che il rumore echeggiò nello spazio quasi privo d’aria e si dibatté per liberarsi. Daeman si chinò ancora di più, spostò in basso anche l’altra mano (il braccio destro gli sanguinava, ma le dita di quella mano gli funzionavano ancora) e strinse di nuovo, senza mollare la presa, lasciandosi trascinare da Calibano che si contorceva e scalciava per liberarsi. Immaginò di schiacciare pomodori, immaginò di spremere arance, di farne schizzare la polpa, e non allentò la presa (il suo mondo si era ridotto alla volontà di tenere duro e di strizzare) e Calibano ruggì di nuovo, mosse in un arco il lungo braccio e colpì Daeman, con tanta forza da farlo volare giù, sul terrazzo sottostante.

Per vari secondi Daeman, stordito, non pensò a difendersi, non capì neanche dove si trovasse. Ma Calibano non sfruttò quei secondi, era troppo impegnato ad agitare le braccia e a ululare e a piegarsi in due, sollevando le ginocchia squamose nel tentativo di accucciarsi e ingobbirsi. Proprio quando la vista di Daeman cominciò a schiarirsi, il mostro tornò sul terrazzo, afferrò la ringhiera e si lanciò per superare i cinque metri che lo separavano da Daeman. Le lunghe braccia e gli artigli erano già quasi pronti a ghermirlo.

Daeman tastò alla cieca fra sedie e tavoli intorno a sé, ritrovò il tubo di ferro, lo alzò a due mani e colpì selvaggiamente di lato la testa di Calibano. Il rumore del colpo fu molto soddisfacente. La testa di Calibano si spostò di lato e le braccia e il tronco andarono a sbattere contro Daeman, ma quest’ultimo spinse da parte la belva (ora cominciava a sentire che il braccio destro si intorpidiva), lasciò cadere il tubo, balzò verso la ringhiera del terrazzo e con un calcio si diede la spinta verso l’apertura semipermeabile nove metri più in alto.

Troppo lentamente.

Più avvezzo alla bassa gravità, alimentato da un odio ora al di là di misura umana, Calibano usò mani piedi, gambe e momento cinematico per rimbalzare dalla parete del terrazzo, afferrare con le dita palmate la ringhiera, accucciarsi, scattare e superare Daeman a mezz’aria nella corsa al pannello segnato, più in alto.

Vedendo che non ce l’avrebbe fatta, Daeman afferrò una trave maestra che sporgeva cinque metri sotto il pannello e si arrestò. Calibano atterrò sull’aggetto e allargò le braccia per bloccare l’accesso al riquadro bianco. Daeman non aveva modo di girare intorno alle braccia spalancate, di oltrepassare gli artigli pronti ad agguantarlo. Sentì all’improvviso il dolore del braccio azzannato e forato giungergli al cervello e al tronco come una scarica elettrica, poi avvertì il crescente intorpidimento come un preavviso della debolezza e dello shock che sarebbero presto seguiti.

Calibano gettò indietro la testa, ruggì di nuovo, mostrò i denti e cantilenò: «Ciò che odio, Lui consacra… ciò che mangio, Lui esalta! Non più compagno per te… carne in più per me!». Era pronto a balzare verso Daeman non appena questi si fosse girato per fuggire.

Vedendo le cicatrici vive sul petto di Calibano, Daeman si ritrovò a sorridere torvamente. "Savi l’ha ferito" pensò. "Non è morta senza lottare. E io neppure."

Anziché girarsi e fuggire, si tirò su in orizzontale sulla trave maestra, si accoccolò, raccolse le forze che gli restavano nelle gambe, abbassò la testa e si lanciò dritto contro il petto di Calibano.

Impiegò due o tre secondi ad attraversare lo spazio che li separava. Per un istante il mostro parve troppo sorpreso per reagire. In teoria il cibo non si comportava con quell’impertinenza, in teoria la preda non andava alla carica. Poi Calibano si rese conto che il pranzo veniva a lui e in pratica gli portava la tanto desiderata termotuta; allora mostrò tutti i denti in un sorriso che si mutò m ringhio. Lanciò braccia e gambe intorno all’umano in arrivo, in una stretta che, Daeman lo sapeva, non avrebbe allentato finché non lo avesse ucciso e iniziato a divorare.

Attraversarono insieme la membrana, Daeman con la sensazione di strappare una tenda di velo appiccicoso, Calibano urlando nell’aria sottile un secondo e nel gelido silenzio il secondo seguente. Insieme rotolarono nello spazio esterno e Daeman strinse Calibano con la stessa forza con cui era stretto da lui, premendo la mano sinistra contro il mento del mostro nel tentativo di tenere lontano i denti per gli otto o dieci secondi che riteneva sarebbero bastati.

La termotuta reagì immediatamente al vuoto, si serrò saldamente sulle carni di Daeman, si restrinse fino a comportarsi come una tuta a pressione, chiudendo anche i varchi molecolari che avrebbero lasciato uscire nello spazio aria o sangue o calore. La maschera osmotica gonfiò il visore trasparente e commutò al cento per cento la purificazione del respiro riciclato dell’uomo. Tubuli refrigeranti nella termotuta lasciarono che il naturale sudore di Daeman scorresse rapidamente in canali, raffreddando il lato rivolto al sole mentre il calore corporeo veniva trasferito alla parte del corpo nell’ombra a duecento gradi sotto zero. Tutto avvenne in una frazione di secondo e Daeman nemmeno se ne accorse. Era troppo impegnato a spingere indietro la mascella di Calibano e in alto il suo muso, per tenere i denti lontano dalla propria gola e dalla spalla.