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Calibano era troppo forte. Scosse la testa, la sottrasse alla spinta sempre più debole di Daeman e spalancò le fauci per urlare di trionfo, prima di azzannare la gola della preda.

L’aria si precipitò fuori dal torace e dalla bocca di Calibano come acqua da una zucca sfondata. La saliva si ghiacciò appena schizzata nel vuoto. Calibano si premette le orecchie, ma con un attimo di ritardo: i timpani gli esplosero e globuli di sangue schizzarono nello spazio. Meno di un secondo più tardi, i globuli cominciarono a bollire nel vuoto, al pari del sangue nelle vene.

Gli occhi di Calibano presero a gonfiarsi e altro sangue schizzò dai condotti lacrimali. Il muso si mosse su e giù mentre la bocca si apriva come quella di un pesce, sibilando in silenzio nel vuoto, ansimando per aspirare aria senza trovarla. La parte esterna degli occhi sporgenti cominciò a congelare e a diventare opaca.

Daeman intanto si era liberato; ruzzolò sul terrazzo esterno (rischiò di galleggiare via, impotente, nello spazio, ma riuscì ad afferrare la ringhiera) e si tirò su, una mano dopo l’altra, fino al ben noto sonie legato alla piastra metallica. Non voleva correre. Non voleva girare la schiena a Calibano. Voleva stare lì e uccidere con le sue mani il mostro che ancora si dibatteva.

Ma ora una di quelle mani non funzionava più. Quando si diede la spinta per superare gli ultimi tre metri fino al basso veicolo, Daeman scoprì che il braccio destro gli penzolava, inerte, lungo il fianco. "Harman" pensò. "Hannah."

Un essere umano privo di protezione nel vuoto spaziale sarebbe già morto (pur sapendo ben poco di qualsiasi cosa, Daeman lo intuiva con chiarezza) ma Calibano non era umano. Sputando sangue e aria congelata come un’orribile cometa che facesse evaporare la sua stessa bollente materia di superficie nell’avvicinarsi al Sole, Calibano rotolò, agitò le braccia, trovò appiglio nella griglia metallica del terrazzo, si diede la spinta e attraversò di nuovo la parete semipermeabile, ritrovando l’aria e un relativo calore.

Daeman era troppo impegnato per guardare. Disteso bocconi sui cuscini del posto di guida, usò la sinistra per tirarsi addosso la rete di cinture di sicurezza; poi si girò verso il piano metallico dove si sarebbe dovuto trovare il pannello di comando virtuale. Vide che era spento.

"Come lo accendo?" si chiese. "Cosa faccio, se non ci riesco? Savi come lo accendeva?"

Aveva la mente vuota. Il campo visivo gli si restrinse, mentre puntini neri gli danzavano davanti agli occhi. In iperventilazione, prossimo a perdere i sensi, cercò, frenetico, di richiamare alla mente l’immagine di Savi che pilotava il sonie, che accendeva il pannello di comando. Non riusciva a ricordare.

«Calma. Sta’ calmo. Sta’ calmo.» La voce era la sua, eppure gli era al tempo stesso estranea: una voce più vecchia, ferma, divertita. «Procedi con calma.»

Daeman obbedì, si costrinse innanzitutto a respirare a ritmi umani, poi a rallentare il battito cardiaco, poi a concentrare la vista e la mente.

«Savi non usava comandi a voce?» Non avrebbe funzionato, lì nello spazio. Niente aria, niente suoni. L’aveva detto Savi. O forse Harman. In quei giorni imparava da tutti. «Come, allora?» Si costrinse a rilassarsi un po’ di più, chiuse gli occhi, cercò di richiamare alla mente l’immagine di Savi che pilotava il sonie dall’iceberg, quella prima notte di volo.

«Per accendere le apparecchiature passò la mano sotto la camicia metallica qui in basso, vicino alla maniglia.»

Mosse la sinistra. Comparve il pannello di comando virtuale. Usando solo la sinistra, chiudendo gli occhi quando doveva ricordare con imaggiore chiarezza, Daeman mosse le dita nelle sequenze di comando sul multicolore pannello virtuale. Il campo di forza si accese. Un attimo dopo, Daeman udì con sorpresa un ruggito e alzò gli occhi, ma era solo l’aria che riempiva lo spazio racchiuso nel campo di forza, proprio come aveva comandato con le dita. Con l’aria giunse una voce: «Modalità manuale o pilota automatico?».

Daeman sollevò un poco la maschera osmotica, quasi pianse nel respirare la prima dolce aria che gustava da un mese a quella parte e disse: «Manuale».

Comparve la cloche, circondata da un’aura virtuale. La cloche parve solida, nella sinistra di Daeman.

Senza badare agli ormeggi, di cui si ricordò solo quando vide le bande elastiche staccarsi e volare nello spazio, Daeman sollevò il sonie tre metri sopra il terrazzo metallico, mosse la cloche, alimentò i propulsori posteriori, andò fuori rotta, si allineò di nuovo in tutta fretta prima di urtare contro la parete metallica anziché contro la finestra e colpì, a una sessantina di chilometri all’ora, il riquadro semipermeabile.

Calibano era in attesa sull’aggetto interno. Con traiettoria perfetta balzò verso la testa di Daeman, ma cozzò contro il campo di forza. Rimbalzò e rotolò nel vuoto al centro della torre.

Daeman compì un largo giro, per abituarsi a pilotare, e mosse la cloche per dare maggiore potenza. Il sonie toccò gli ottanta chilometri all’ora. Calibano alzò gli occhi sanguinanti e li spalancò: fu colpito nella sezione mediana dalla prua del sonie, volò nello spazio aperto della torre e andò a schiantarsi contro travi maestre e vetri nella parte opposta.

A Daeman sarebbe piaciuto trattenersi a giocare (il desiderio di farlo era più forte del dolore acuto al braccio destro) ma i suoi amici là sotto morivano lentamente. Inclinò il sonie in una virata e si tuffò dritto verso la base della città, più di cinquanta piani in basso.

Quasi non frenò in tempo: il sonie tosò le zolle, tagliò i fuchi e lanciò da tutte le parti erba secca, ma poi Daeman lo portò in volo orizzontale e ridusse un poco la velocità. Il tragitto di venticinque minuti percorso a balzi dallo spedale alla torre richiese ora solo tre minuti di volo.

L’ingresso non era abbastanza largo per il sonie. Daeman portò indietro la macchina volante, diede più spinta e rese permeabile per sempre la membrana semipermeabile. Schegge di vetro, di metallo e di plastica seguirono il sonie, mentre Daeman volava tra vasche di guarigione scure e vuote. Trasalì nello scorgere in alcune il corpo esangue di coloro che non avevano fatto in tempo a salvare. Poi fermò il sonie, spense il campo di forza e saltò giù accanto ai due corpi distesi sul pavimento.

Harman aveva lasciato addosso a Hannah la tuta termica, tenendo per sé, nei minuti finali, solo la maschera osmotica. Il suo corpo nudo era livido e pallido nel riflesso della luce dei fari del sonie. La bocca di Hannah era spalancata, come in un ultimo, vano sforzo di immettere più aria nei polmoni. Daeman non perdette tempo a controllare se erano vivi. Usando solo il braccio sinistro, li alzò da terra e li distese negli incavi ai lati del suo. Indugiò solo un attimo, poi saltò giù di nuovo, lanciò nell’incavo posteriore lo zaino di Savi e sul proprio bracciolo la pistola; quindi riprese posto e accese il campo di forza.

«Ossigeno puro» disse al sonie, mentre cominciava l’afflusso d’aria. La fredda aria pulita divenne più densa ed ebbe su di lui un effetto esilarante, tanto era ricca d’ossigeno. Daeman armeggiò nel pannello di comando virtuale, facendo scattare parecchi segnali d’allarme, ma alla fine trovò il riscaldamento. Aria calda uscì dalla console e da varie bocchette.