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Harman cominciò a tossire, imitato da Hannah qualche secondo più tardi. I due batterono le palpebre, aprirono gli occhi, misero a fuoco la vista.

Daeman sorrise con aria sciocca.

«Dove… dove!…» ansimò Harman.

«Calma, calma» disse Daeman, muovendo lentamente il sonie verso l’uscita dello spedale. «Non avere fretta.»

«Tempo… il tempo…» ansimò Harman. «L’acceleratore… lineare.»

«Oh, merda!» disse Daeman. Si era dimenticato della struttura in arrivo, non aveva mai guardato nello spazio per vedere a che punto era.

Diede al sonie la massima spinta, varcò il buco dove c’era stata la membrana e accelerò verso l’uscita della torre.

Nella torre non c’era traccia di Calibano. Daeman descrisse un’ampia curva, infilò con precisione, come un ago, il pannello d’uscita della torre e dal terrazzo esterno salì nello spazio.

«Oddio» alitò Harman.

Hannah strillò, il primo suono che aveva emesso da quando era stata ripescata dalla vasca di guarigione.

L’acceleratore lineare, lungo tre chilometri, era così vicino che il collettore del wormhole sulla prua riempiva due terzi del cielo e oscurava sole e stelle. Propulsori si accendevano in moduli quadrati per tutta la sua lunghezza, facendo le ultime correzioni di rotta prima dell’impatto. Daeman non sapeva il nome delle varie parti, ma riusciva a distinguere ogni particolare: le lucenti controventature, gli anelli levigati ora butterati da innumerevoli colpi di micrometeoriti, la serie di serpentine di raffreddamento, la lunga linea di ritorno color rame sopra il nucleo principale dell’acceleratore, i lontani fasci di iniettori e la rotante sfera color terra-e-mare dello stesso wormhole prigioniero. L’acceleratore divenne più grande sotto i loro occhi, oscurando le ultime stelle in alto, e la sua ombra cadde sulla città di cristallo che si estendeva per due chilometri sotto di loro.

«Daeman…» cominciò Harman.

Daeman aveva già reagito, aumentando al massimo la spinta e curvando sopra la torre, la città, l’asteroide, tuffandosi verso la grande curva azzurra della Terra, mentre dietro di loro l’acceleratore copriva le ultime centinaia di metri.

Per un istante le torri della città furono sopra di loro, mentre il sonie eseguiva il giro della morte, e poi leggermente indietro, quando la massa in corsa colpì la città e l’asteroide, e la sfera wormhole si schiantò contro le torri e la città allungata, un paio di secondi prima della struttura metallica dell’acceleratore stesso. Il wormhole collassò silenziosamente in se stesso e l’acceleratore lineare parve schiacciarsi a fisarmonica nel nulla; poi la piena forza dell’impatto divenne evidente, mentre tutti e tre gli umani si giravano negli incavi e piegavano il collo per vedere alle proprie spalle.

Non ci fu alcun suono. Fu proprio questo a colpire maggiormente Daeman: il puro silenzio del momento. Neanche una vibrazione. Neanche uno dei soliti indizi che sulla Terra indicavano un grande cataclisma in atto.

Ma un grande cataclisma era in atto, eccome.

La città di cristallo esplose in milioni di milioni di frammenti, vetro fuso e gas ardente che si espandevano in tutte le direzioni. Grandi palle di fiamme si gonfiarono verso l’esterno per un chilometro, due chilometri, dieci chilometri, come se cercassero di acchiappare il sonie in picchiata, ma poi le enormi fiammate parvero ripiegarsi all’interno, come un’immagine video che scorresse al contrario, mentre il fuoco consumava l’ultimo ossigeno sfuggito.

La città sul lato opposto dell’asteroide rispetto al punto d’impatto fu espulsa nello spazio, si frantumò in mille traiettorie separate, mentre vetro e acciaio e pulsante materia esotica volavano via: molte sezioni celebrarono la loro distinta orgia di distruzione, costellata ovunque da altre esplosioni silenziose e da palle di fuoco che si consumava da solo.

Un secondo dopo l’impatto, l’intero asteroide lungo due chilometri tremò e mandò nello spazio, dietro i detriti della città, onde concentriche di polvere e di gas. Poi si frammentò.

«Presto!» disse Harman.

Daeman agiva d’istinto. Aveva spinto a tutta velocità il sonie verso la Terra, tenendosi appena un po’ più avanti delle fiamme e dei detriti e delle onde di gas congelati, ma ora vedeva varie spie d’allarme, rosse e gialle e verdi, in tutto il pannello di comando. Ma ciò che era peggio, negli ultimi secondi aveva notato rumori provenienti dall’esterno del sonie, un sibilo sospetto e uno scricchiolio che crebbero di secondo in secondo fino a diventare un rombo terrificante. Peggio di tutto, un bagliore arancione intorno ai bordi del sonie diventò rapidamente una sfera di fiamme e di plasma blu elettrico.

«Cosa c’è?» gridò Hannah. «Dove siamo?»

Daeman non le badò. Non sapeva come manovrare l’acceleratore e il comando di assetto. Il rombo aumentò di volume e l’involucro di fiamme intorno a loro divenne più denso.

«Siamo stati danneggiati?» gridò Harman.

Daeman scosse la testa. Non credeva che il sonie avesse subito danni. Forse il rombo aveva a che fare con il rientro nell’atmosfera terrestre a quella velocità. Una volta, quando aveva sei o sette anni, in casa di un amico di sua madre a Cratere Parigi, malgrado gli ammonimenti si era lasciato scivolare su una lunga ringhiera, era saltato giù a grande velocità e aveva strisciato con le mani e le ginocchia sul folto tappeto. Si era procurato estese bruciature e non aveva più ripetuto la bravata. Ora aveva l’impressione che si trattasse di un attrito simile.

Decise di non esporre a Harman e a Hannah la sua teoria. Pareva una scemenza, perfino a lui.

«Fa’ qualcosa!» gridò Harman, superando il rombo e gli scricchiolii intorno a loro. I due uomini avevano i capelli e la barba ritti, al centro di quella follia elettrica. Hannah, calva, priva dei magnifici capelli, si guardava intorno, a occhi sbarrati, come se si fosse risvegliata in un manicomio.

Prima che il rumore soffocasse ogni cosa, Daeman gridò ai comandi virtuali: «Pilota automatico!».

«Inserire il pilota automatico?» chiese la voce neutra del sonie, quasi impercettibile nel rombo del rientro.

Daeman sentiva il calore penetrare nel campo di forza e capì che non era un buon segno. «Inserire il pilota automatico!» gridò, con quanto fiato aveva in gola.

Il campo di forza scese sui tre passeggeri, li schiacciò contro gli incavi, mentre la console si capovolgeva e i motori di poppa si accendevano con tale violenza che Daeman pensò che i denti gli sarebbero saltati via. Sentiva un tremendo dolore al braccio, compresso dalla decelerazione.

«Rientro secondo il piano di volo già programmato?» chiese con calma il sonie, parlando come l’idiot savant che era.

«Va bene» gridò Daeman. Aveva male al collo per la terribile pressione, era sicuro che la spina dorsale gli si sarebbe spezzata.

«È un’affermazione?» chiese il sonie.

«Sì, è un’affermazione!» gridò Daeman.

Altri propulsori si accesero e il sonie parve saltare come una pietra piatta lanciata su uno specchio d’acqua; fu avvolto altre due volte nelle fiamme del rientro e poi in qualche modo tornò a un assetto normale.

Daeman alzò la testa.

Erano in volo: volavano così in alto che davanti a loro si vedeva ancora la curvatura della Terra, così in alto che le montagne molto più in basso erano riconoscibili solo dalla bianca coltre di neve, contro il marrone e il verde del terreno. Ma volavano. C’era aria, fuori.

Daeman lanciò un grido di esultanza, si sporse e strinse Hannah, nella termotuta azzurra, poi gridò di nuovo e alzò il pugno verso il cielo in un gesto di trionfo.

Si bloccò, col pugno alzato e gli occhi in su. «Oh, merda» disse.

«Cosa c’è» chiese Harman, sempre nudo, a parte la maschera osmotica che gli pendeva intorno al collo. Guardò in alto, seguendo lo sguardo di Daeman. «Oh, merda» disse.