Le fiamme e il fumo erano visibili proprio oltre il limitare del prato superiore, appena dietro la linea degli alberi, ma Ada e Odisseo non dovettero salire fin lassù a fare ricerche nel buio. Ada li scorse per prima: due uomini barbuti ed emaciati che uscivano dalla foresta e venivano verso di loro. Uno dei due era nudo, con la pelle livida che riluceva nel fioco crepuscolo; mostrava le costole anche da lontano e pareva portare fra le braccia un bambino calvo in tuta azzurra. L’altro uomo barbuto e scheletrico indossava quella che Ada riconobbe subito per una termotuta verde, ma così strappata e sporca da lasciar intuire a stento il colore. Il braccio destro di costui pendeva lungo il fianco, palma in avanti, e il polso e la mano erano di un rosso opaco per il sangue rappreso. I due uomini barcollavano, ma si sforzavano di stare in piedi e di continuare a muoversi.
Odisseo estrasse a mezzo la corta spada.
«No!» gridò Ada, spingendo giù il braccio di Odisseo e la spada. «No, è Harman! E l’altro è Daeman!» Corse verso di loro nell’erba alta.
Mentre lei s’avvicinava, Harman cominciò a cadere in avanti; Odisseo coprì di corsa gli ultimi venti passi e prese al volo il fardello che Harman, cadendo, avrebbe trascinato a terra. Anche Daeman cadde sulle ginocchia.
«È Hannah» disse Odisseo, posando sull’erba la ragazza quasi priva di sensi e toccandole la gola per sentirne la pulsazione.
«Hannah?» ripeté Ada. Quella donna non aveva capelli né ciglia, ma gli occhi sotto le palpebre tremolanti erano proprio quelli di Hannah.
«Ciao, Ada» disse la ragazza distesa sul terreno.
Ada piegò il ginocchio e si accosciò accanto ad Harman, lo aiutò a girarsi sulla schiena. Lui cercò di sorriderle. Aveva la faccia piena di lividi e di tagli sotto la barba, le guance e la fronte quasi coperte di sangue rappreso, gli occhi infossati, la pelle di un bianco malaticcio e gli zigomi troppo sporgenti. Tremava per la febbre e la guardò con occhi brucianti. Batteva i denti, ma si sforzò di parlare. «Sto bene, Ada. Dio mio, sono felice di vederti.»
Daeman era in condizioni peggiori. Ada non poteva credere che quei due uomini pieni di lividi, insanguinati, emaciati fossero gli stessi che erano partiti con tanta noncuranza un mese prima. Mise il braccio sotto quello di Daeman per evitare che cadesse a faccia in giù sul terreno. Daeman ondeggiò sulle ginocchia.
«Dov’è Savi?» chiese Odisseo.
Harman scosse la testa, con aria triste. Pareva troppo stanco per parlare ancora.
«Calibano» disse Daeman. Alle orecchie di Ada la sua voce suonò invecchiata di vent’anni.
Il peggio della tempesta di meteoriti era passato, i rumori e le fiammate degli impatti si erano spostati verso est. Poche decine di striature minori attraversavano lo zenit da ovest a est, quasi con delicatezza, più simili all’annuale pioggia delle Perseidi in agosto che alla violenta grandinata di quella sera.
«Portiamoli in casa» disse Odisseo. Si alzò, sollevò con facilità Hannah e diede la spalla destra a Daeman perché si sorreggesse. Ada aiutò Harman a tirarsi sulle ginocchia e in piedi, si mise intorno alle spalle il braccio destro dell’uomo e sostenne quasi tutto il suo peso, mentre scendevano il prato buio verso le luci di villa Ardis, dove i discepoli di Odisseo e gli amici di Ada avevano acceso delle candele.
«Quel braccio pare in brutte condizioni» disse Odisseo a Daeman, mentre scendevano. «Taglierò la termotuta e gli darò un’occhiata, appena saremo alla luce.»
Ada usò la mano libera per toccare delicatamente il braccio insanguinato di Daeman e lui gemette e rischiò di svenire. Solo la robusta spalla di Odisseo e la destra di Ada, scivolata rapidamente sul fondo della schiena, lo tennero in piedi. Daeman batté le palpebre per qualche secondo, poi mise a fuoco la vista, sorrise a Ada e continuò a camminare.
«Sono ferite gravi» disse Ada, sentendosi prossima alle lacrime per la seconda volta in quella sera. «Dovreste essere faxati subito allo spedale.»
Non capì perché Harman e Daeman si mettessero a ridere, con esitazione e sofferenza all’inizio, più tossendo che ridendo per un poco; ma poi quel latrare si mutò in risata vera, crebbe di volume e di schiettezza, al punto che, con una certa irritazione da parte di Ada, i due parevano sbronzi, nelle convulsioni del loro divertimento privato.
63
OLIMPO
Olympus Mons, il più alto vulcano di Marte, si eleva per oltre ventisettemila metri sulla pianura circostante e sul nuovo oceano ai suoi piedi. La base si estende per più di seicento chilometri. La cima verdeggiante pare toccare il cielo. Olympus Mons è alto quasi tre volte il monte Everest sulla Terra. I suoi fianchi, bianchi per la neve e il ghiaccio durante il giorno, stasera luccicano di colore rosso sangue per il bagliore del sole al tramonto.
Gli scabri strapiombi qui alla base nordest di Olympus Mons si alzano in verticale per cinquemila metri. In questa particolare sera marziana, la lunga ombra del vulcano si estende a est quasi fino alla linea dei tre vulcani del Tharsis, visibile all’orizzonte nebbioso.
L’ascensore di cristallo, ad alta velocità, che soleva risalire come un serpente questo lato di Olympus Mons, è stato spezzato in due poco sopra lo strapiombo, con un taglio così netto da sembrare fatto dalla lama di una ghigliottina. Un potente campo di forza a sette strati, generato da Zeus stesso (la aegis, l’egida) protegge dagli attacchi l’intero Olympus Mons e ora brilla nella rossa luce della sera.
Proprio al di là degli strapiombi, vicino al punto dove la base di Olympus Mons digrada verso l’oceano settentrionale terraformato solo un secolo e mezzo prima, un migliaio o più di dèi si sono radunati per la battaglia. Un centinaio di cocchi dorati, ciascuno spinto da forze invisibili, ma tirato da possenti destrieri ben visibili, volano in copertura a migliaia di metri sopra le masse di dèi in corazza dorata radunati sugli alti pianori e sulle spiagge di ciottoli in basso.
Zeus ed Era sono in prima linea, in questo esercito d’immortali: alti sei metri, marito e moglie risplendono in corazza e scudo e armi forgiate da Efesto e da altri dèi abili nei lavori artigianali; perfino i loro elmi sono di oro puro, con microcircuiti incorporati, rinforzati con moderne leghe. Atena e Apollo al momento sono assenti, ma nella prima fila di questa falange divina ci sono altri dèi e altre dee…
C’è Afrodite, bellissima anche nell’abbigliamento da battaglia. Il suo elmo è tempestato di pietre preziose; il suo piccolo arco è fatto per lanciare frecce di cristallo a punta cava, piena di gas venefico.
C’è Ares, che ride sotto il bordo dell’elmo dal cimiero rosso, pregustando lo spargimento di sangue senza precedenti che avverrà tra poco. Porta l’argenteo arco di Apollo e una faretra piena di frecce attirate dal calore. Se mira a un bersaglio, lo uccide o lo distrugge.
C’è Poseidone, "colui che scuote la Terra", enorme e tenebrosamente possente, armato per la guerra per la prima volta in millenni. Dieci uomini, perfino con Achille fra loro, non riuscirebbero a sollevare la massiccia ascia che lui impugna nella sinistra.
C’è Ade, in espressione, umore e armatura perfino più scuro di Poseidone, con occhi rossi che brillano dalle profonde orbite dell’elmo da battaglia. Persefone, con una corazza color lapislazzuli, è vicina al suo signore e tiene fra le lunghe, pallide dita un uncinato tridente di titanio.
C’è Ermes, snello e letale, avvolto nella corazza rosso insetto, pronto a telequantarsi nella battaglia, uccidere e schizzare via prima che occhio mortale si accorga del suo arrivo, per non parlare del carnaio che si lascerà alle spalle.
C’è Teti, con i divini occhi arrossati dal pianto, ma ligia al dovere e vestita in abbigliamento da guerra, tutto squame, pronta a uccidere il proprio figlio, Achille, se e quando questa sarà la volontà di Zeus.