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«Ho mentito» disse Harman a Daeman. «Sai tanto quanto me che Odisseo assalirà i voynix, impedirà loro di fare qualsiasi cosa progettino.»

«Sì» rispose Daeman. «Lo so.»

«Sfrutterà questa guerra per preparare i discepoli per quella che considera la guerra vera» continuò Harman, alzando gli occhi verso la bianca villa sulla collina. «Cerca di insegnarci a combattere prima che giunga la vera battaglia. Dice che la riconosceremo, che la guerra giungerà in forma di sfere turbinanti, aprendo fori nel cielo, portando noi a nuovi mondi e nuovi mondi a noi.»

«Lo so. Gliel’ho sentito dire.»

«È pazzo» disse Harman.

«No, non lo è.»

«Andrai in guerra con lui?» chiese Harman; dal tono pareva che se lo fosse già chiesto lui stesso varie volte.

«Non contro i voynix» rispose Daeman. «A meno di esserci costretto. Devo dare la precedenza a un’altra battaglia.»

«Lo so, lo so.» Harman diede un bacio a Ada. «Ci vediamo alla villa» disse e risalì da solo la collina. Zoppicava ancora un poco.

Daeman si ritrovò all’improvviso svuotato d’energie. Lì c’era una panchina di legno, con la vista sul prato più in basso e sulla vallata del fiume nell’ombra della sera; vi si sedette con sollievo. Ada prese posto accanto a lui.

«Harman ha capito a cosa ti riferivi» disse «ma io no. A quale battaglia devi dare la precedenza?»

Daeman si strinse nelle spalle, imbarazzato.

«Daeman?»

Dal tono, Daeman capì che Ada sarebbe rimasta seduta lì sulla panchina finché non avesse avuto una spiegazione e lui al momento non aveva le forze per alzarsi e allontanarsi.

«C’è un faro azzurro che si alza nella notte in un luogo chiamato Gerusalemme» disse infine. «In quella luce sono intrappolati più di novemila individui del popolo di Savi. Novemila ebrei. Qualsiasi cosa significhi quel nome.»

Ada lo guardò senza capire. Daeman si rese conto che lei non aveva ancora sentito quella parte della storia. A poco a poco imparavano di nuovo l’arte di raccontare… riempiva le serate a lume di candela, oltre al lavaggio dei piatti.

«Prima che la guerra promessa da Odisseo arrivi fin qui» riprese Daeman, con voce bassa ma decisa «prima di non avere altra scelta se non combattere in una colossale lotta che non capisco, andrò a tirare fuori da quella maledetta luce novemila persone.»

«In che modo?» chiese Ada.

Daeman rise: una risata serena, disinvolta, una novità imparata negli ultimi due mesi. «Non ne ho la più pallida idea, maledizione.»

Si alzò a fatica, si lasciò sostenere da Ada e risalirono a fianco a fianco la collina verso villa Ardis. Alcuni discepoli accendevano già le lanterne sopra il tavolo all’esterno, anche se mancava ancora un’ora alla cena. Stasera era il turno di Daeman come aiutante in cucina e lui cercò di ricordare quale piatto gli era stato affidato. Insalata, si augurò.

«Daeman?» disse Ada. Si era fermata e lo guardava.

Daeman si fermò a sua volta e ricambiò lo sguardo, sapendo che la ragazza avrebbe amato Harman per sempre e sentendosi in qualche modo felice di questo. Forse erano le ferite e lo sfinimento, ma lui aveva perduto la voglia di fare sesso con ogni donna che incontrava. Anche se, si rese conto, di nuove donne non ne aveva incontrate molte, dalla pioggia di meteoriti.

«Daeman, come hai fatto?» chiese Ada.

«Fatto cosa?»

«A uccidere Calibano.»

«Non sono sicuro di averlo ucciso» disse Daeman.

«Ma l’hai battuto!» esclamò lei, in tono quasi feroce. «Come?»

«Avevo un’arma segreta» rispose Daeman. Nel dirlo, si rese conto di quanto fosse vero.

«Quale?» chiese Ada. Le ombre della sera si allungavano, dolci, sul prato in pendio intorno a loro, il cielo della sera era delicato sopra villa Ardis, ma Daeman scorgeva nubi scure raccogliersi all’orizzonte dietro Ada.

«L’ira» disse infine. «L’ira.»

65

INDIANA, 1200 A.C.

Circa tre settimane dopo l’inizio della guerra che avrebbe posto fine a tutte le guerre, dico sul serio, adopero il mio vecchio medaglione per telequantarmi nella parte opposta del mondo. Avevo promesso a Nightenhelser che sarei tornato a prenderlo e mi piace mantenere la parola data, se posso.

Ho lasciato nel cuore della notte, tempo di Ilio/Olimpo, una riunione in una delle nuove tende a prova di esplosivi dove Achille ora tiene consiglio con i condottieri superstiti e mi sono limitato a telequantarmi per capriccio, sapendo che presto un simile teletrasporto quantico sarà solo un ricordo. Resto sorpreso, quando mi trovo su un pendio erboso in un mattino soleggiato del Nord America preistorico. In questo periodo non cresce molta erba intorno a Ilio e proprio nessuna nelle insanguinate piane di Marte.

Scendo la collina fino al torrente e m’inoltro nei boschi, battendo le palpebre per la luce del sole e il silenzio relativo di quel luogo. Non ci sono esplosioni né grida di moribondi né dèi che si teleportano in mezzo alla violenza di uomini urlanti e di cavalli. Per un minuto mi preoccupo della possibilità che ci siano indiani, poi rido di me stesso. Non sfoggio giubbotto protettivo, in questi giorni, e non ho neppure il magico Elmo di Ade né un bracciale morfico, ma ho già messo alla prova la corazza di bronzo e di duraplast che indosso. E so usare la spada che porto alla cintura e l’arco che adesso ho in spalla. Be’, se incontro Patroclo e se lui è riuscito a procurarsi delle armi e se nutre rancore (e chi, di quel maledetti eroi greci, non ne nutre?) non scommetterei molto sulle mie possibilità.

’Fanculo. Come dice Achille — o forse è il centurione capo Mep Ahoo a dirlo — niente fegato, niente gloria.

«Nightenhelser!» grido nei boschi. «Keith!»

Anche urlando a pieni polmoni, ci metto un’ora a trovarlo e ci riesco solo perché incappo in un villaggio indiano in una radura a circa un chilometro dal punto dove mi sono telequantato. In questo villaggio non ci sono tepee, solo rozze capanne di rami piegati, foglie e quelle che sembrano zolle erbose. Un fuoco da campo arde al centro del villaggio composto in tutto di sei wigwam. All’improvviso cani abbaiano, donne strillano e prendono in braccio i figli, sei nativi americani tendono archi primitivi e incoccano frecce e le puntano contro di me.

Tendo il mio bell’arco di cedro, fatto a mano da artigiani nella remota Argo, incocco una bella freccia fatta a mano, con un unico movimento fluido e ben allenato, e li prendo di mira, pronto ad abbatterli tutti con un dardo nel fegato mentre le loro asticelle appuntite mi rimbalzano sulla corazza. A meno che non mi colpiscano in faccia o negli occhi. O nella gola. O…

L’ex scoliaste Nightenhelser, con vesti di pelle d’animale come quei guerrieri indiani, corre fra noi e grida monosillabi. Gli indiani sembrano indispettiti, ma abbassano l’arco. Li imito.

Nightenhelser mi si avvicina, deciso. «Maledizione, Hockenberry, cosa credi di fare?»

«Salvarti, forse?»

«Non muoverti» ordina. Latra altri bizzarri monosillabi agli indiani e poi dice loro in greco classico: «E per favore aspettatemi, prima di servire l’arrosto di cane. Torno subito».

Mi prende per il braccio e mi tira verso il torrente, fuori vista dal villaggio.

«Greco?» dico. «Cane arrosto?»

Lui risponde solo alla prima domanda: «La loro lingua è primitiva, difficile da imparare per me. Trovo più facile insegnare loro il greco».

Mi metto a ridere, soprattutto perché mi vedo gli archeologi, fra tre o quattro o cinquemila anni, riportare alla luce quel preistorico villaggio di nativi americani nell’Indiana e trovarvi cocci di vasellame con incise scene della guerra di Troia.

«Che c’è?» dice Nightenhelser.

«Niente, niente.»

Ci sediamo su sassi tutt’altro che comodi sul lato opposto del torrente e parliamo per qualche minuto.